Sorprende nella scrittura come nella comicità: con Aldo e Giovanni ha fatto ridere l’Italia, adesso esce con un libro di ricordi e invenzioni stralunate. Dice a Panorama: «Sono al servizio dei miei personaggi». «Sono stato Tafazzi, ma ora da sognatore abolirei la morte»
Basta leggere i titoli dei racconti per capire di trovarsi davanti a un libro felicemente bislacco. Anche con la penna Giacomo Poretti – una delle tre “gambe” del trio, le altre sono quelle di Aldo Baglio, piuttosto lunghe, e Giovanni Storti – sa divertire, caratteristica che non ne diminuisce il valore narrativo. Il volume, in uscita in questi giorni per La Nave di Teseo, si intitola Un allegro sconcerto ed è la raccolta di interventi fatti da Poretti per diversi giornali. A pagine strettamente biografiche, come quelle dedicate alla prima volta che il futuro comico fece ridere (a una festa di Natale, all’asilo dalle suore), si alternano storie che sarebbero piaciute ai surrealisti: le piante scrittrici, la giornata mondiale delle stampelle, abolire la morte (il premio Nobel José Saramago al tema dedicò un romanzo), la chiusura dei penitenziari.
Che cosa la ispira quando si mette a scrivere?
Immagino un mondo di buone notizie, trattato con vena comica. Non sarebbe bello che sparisse la morte? Che non ci fossero le galere e chi commette reati potesse trovare la strada giusta senza un giorno in cella?
Belle utopie: Giacomo il sognatore…
Sì, ero così anche da ragazzo. Mi piaceva scrivere i temi e metterci dentro qualcosa di sorprendente. Ma non ero lo studente secchione. Vengo da una famiglia umile, operaia. In casa non c’era neppure un libro, non potevo allungare la mano e arraffare tomi dagli scaffali. Mi sono fatto un percorso mio, da autodidatta. E ho scoperto, una volta entrato nel mondo dello spettacolo, che proprio l’aspetto della scrittura è quello che mi piace di più. Anche se chi scrive è schiavo dei personaggi, non governa le righe.
Come?
Sì, i personaggi inventati prendono il comando e ordinano allo scrittore di andare avanti nel modo che aggrada loro. È una sorta di magia, credo faccia parte del processo creativo di ogni autore. Non si spiegherebbe quell’incantesimo che trasforma ogni volta che si costruiscono righe, vicende, storie destinate a essere lette.
Quindi dobbiamo aspettarci altro, per esempio un vero romanzo?
Chissà. Ma in questi giorni ho la testa solo per le vacanze. Sono in Valle d’Aosta, mi piace da pazzi la montagna. Lei dov’è? Sento lo sciabordio delle onde.
La sto chiamando da Loano, Riviera ligure di Ponente.
Loano… Partecipai 35 anni fa a un festival del cabaret che si teneva lì. Vinsero quei due sciagurati di Aldo e Giovanni, allora coppia comica. Io, solista, invece niente: ebbi esiti tragici.
Poi ha trovato la quadra della comicità.
Ma non è stato facile. Ero timidissimo e nel profondo lo sono rimasto. Ho ancora la capacità di diventare rosso, nella vita. Sul palco è diverso, ci si trasforma. Siamo tutti e tre timidi, Aldo lo è in modo pazzesco. Poi, come per miracolo, tra noi tutto scorre e riusciamo a ridere e far ridere. Sono un comico attempato, nel senso che ho cominciato tardi, a 25 anni. Come tutti sanno ho lavorato a lungo prima in fabbrica poi in ospedale, infermiere: lavori per niente da ridere. Fu un corso di teatro, fatto quasi per gioco, a liberare le mie forze interiori e quasi a curarmi dai miei blocchi emotivi. Mi sentivo più forte. Così mi misi in testa di entrare nella compagnia dei Legnanesi: sono della loro zona, parlo lo stesso dialetto. Invece nulla, porte sbarrate. Teresa Mabilia e la sua tribù da ringhiera non avevano bisogno di me.
Però le porte dello spettacolo alla fine si sono aperte. In che modo?
Per caso, come tutte le cose importanti della vita. Con i mie due sodali stiamo insieme da 40 anni: dopo così tanto tempo o ci si manda a quel paese o si diventa un’unica realtà. Tutto cominciò nei ruggenti anni Ottanta. Ero in Sardegna, con Marina Massironi, che allora era mia moglie, in un villaggio turistico per lavorare. Eravamo il brillante duo Hansel & Strüdel. Allora i villaggi turistici – chiedete a Fiorello – funzionavano come trampolini di lancio. Attiravano i cabarettisti, sicuri che lì sarebbero stati notati per poi sfondare nei club e teatri, oltre che al cinema e in tv.
Dunque tradì Marina con Aldo e Giovanni?
Erano a loro volta un duo, cominciamo qualche collaborazione. Una volta capito che l’amalgama comico c’era, ecco che all’inizio degli anni Novanta nasce la ditta Aldo, Giovanni e Giacomo.
In non rigoroso ordine alfabetico.
Ma in ordine di altezza sì: dal gigante siculo Aldo al sottoscritto, passando per Giovanni, poco più alto di me.
Trentatré anni di successi, la formula che vi ha messo insieme funziona ancora.
Devo dire di sì, tanto al cinema quanto in teatro, la mia vera passione. A Milano dirigo il teatro Oscar, e ne sono orgoglioso. Dagli esordi del trio è cambiato molto nella mia vita. Ora sono sposato con Daniela Cristofori, e abbiamo un figlio, Emanuele.
Successi e maschere diventate proverbiali. Come Tafazzi.
Il buon Tafazzi, inventato da Claudio Turati, personaggio autolesionista al quale davo vita, incarna un tipo nazionale. La bottiglia di plastica che percuote i genitali è la sintesi visiva di un atteggiamento vittimistico di cui dovremmo fare a meno.
Che cosa ci riserverà il trio di nuovo? Qualche film come i vostri «cult» Tre uomini e una gamba o Chiedimi se sono felice?
Ormai siamo vecchietti, io ho 67 anni. Dopo il film di Natale dell’anno scorso, Il grande giorno, ci siamo presi un periodo sabbatico. Ognuno fa qualcosa da solista, se lo desidera. Torneremo con un film per il Natale del 2024. Ma intanto certo non mi riposo. «Sconcerto» a parte, che mi impegnerà nelle presentazioni, la prima il 6 settembre al festival della letteratura di Mantova, il 7 novembre debutterò nel nuovo spettacolo con mia moglie, all’Oscar di Milano. Sempre con Daniela torneremo in scena in tutta Italia da gennaio con il nostro Funeral Home, spettacolo comico sulla morte. Non dovrei dirlo io, ma è divertente.
Che cosa ha da dire sulla comicità attuale?
Gli anni Ottanta e Novanta erano l’epoca d’oro del «live». Tutto passava attraverso il cabaret, i teatri, le piazze. Ora c’è la Rete. Dà l’illusione della democrazia, del facile raggiungimento di immense platee, ma è sparito il contatto diretto quasi corporeo con il pubblico. È un altro mondo, anche se so bene che noi e altri possiamo riempire i teatri. I miei amati Legnanesi, per esempio, hanno sale sempre «sold out» e lunghe teniture in cartellone. Però non vorrei essere così negativo: in Rete ci sono bravi colleghi, come iPantellas, ragazzi davvero in gamba.
E il politicamente corretto, bestia nera dei comici?
Una rovina, alimenta un pericolo enorme: l’autocensura. In passato la censura ha chiuso la bocca a Giovanni Testori, Dario Fo, persino a Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello. Riprovevole, meno male che quelle forbici non tagliano più. Ma oggi il comico si censura da solo, spaventato dal rischio di superare i confini angusti del politicamente corretto. E andrà sempre peggio. Si abbatterà anche su di noi: potremo mai più rifare lo sketch della macchina in cui spiaccichiamo cani e gatti sulla strada?
I suoi grandi maestri?
I nostri, perché li condivido con Aldo e Giovanni: Stanlio e Ollio, Buster Keaton, Aldo Fabrizi e Totò, inarrivabili. Poi amo Don Camillo e Peppone. E non dimentico che ho avuto la fortuna di vivere nella Milano anni Ottanta, palcoscenico di ogni esperienza comica mondiale. Veniva Jango Edwards, per dire, scomparso di recente.
La Milano di oggi?
Tanti specchietti e molto vuoto, il cardinale Mario Delpini ha detto cose importanti. La città dell’happy hour e della moda, della settimana del comodino (così io chiamo la Design Week), corre a tremila all’ora ma non sta riflettendo su dove stiamo andando e se ha un’anima. Non è questione di destra o sinistra. Ma di domande fondamentali, spirituali.
Lei è cattolico?
Certo, mi sono formato in famiglia e in oratorio. Ma non esiste una fede senza dubbi. Da giovane mi sono perso, sono stato di estrema sinistra. Dopo il rapimento Moro ho capito che non era quella la mia strada.
Le fanno paura i cambiamenti climatici?
Io penso che siamo troppo bestie per non averne colpa. Qui in montagna continuo a trovare rifiuti abbandonati sui sentieri… Giovanni, che è più ecologista di me, s’incazzerebbe di brutto!
