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Io, che sono fuggito dai Cinque stelle

Io, che sono fuggito dai Cinque stelle

Dai primi banchetti nel 2008 alla fuoriuscita nel 2019. Dal sogno di Gianroberto Casaleggio di un Movimento istituzionale alla passione del flglio Davide per la piattaforma Rousseau. Il senatore Stefano Lucidi, passato lo scorso dicembre nelle file della Lega, racconta i suoi 11 anni con i grillini.


«Poco dopo che siamo entrati in Parlamento nel 2013 si è consumata la fine della visione del Movimento». A raccontarlo a Panorama è l’ex grillino Stefano Lucidi, che a dicembre ha lasciato gli scranni pentastellati per quelli leghisti, votando contro la risoluzione di maggioranza sul Meccanismo europeo di stabilità. Ingegnere cinquantenne con il pallino della musica («Scrivo canzoni d’amore»), dell’arte («Vuole vederli i miei collage?») e dei social (famose le sue bislacche foto d’aula), il senatore si è aperto sulla sua amara delusione nel partito che avrebbe dovuto aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, ma che invece si è fatto stordire dal canto delle sirene del potere. «L’idea di Gianroberto Casaleggio di organizzare il Movimento all’interno delle istituzioni non si è mai verificata».

Forse ha pesato che l’ideologo si fosse ammalato per poi morire nell’aprile del 2016.
Sì. Lui si era cominciato ad allontanare già prima che noi sapessimo che non stava bene. Da lì l’anima del Movimento è sfumata subito, è stato l’inizio della fine del sogno a Cinque stelle.

In che modo si è avvicinato all’M5s?
Era il 2008, quando ancora non esisteva il soggetto politico vero e proprio, quando c’erano le liste civiche «Gli amici di Beppe Grillo». Io sono di Spoleto, lì iniziavamo a fare i primi banchetti senza capire bene cosa fossimo. Ci riunivamo, parlavamo un po’ di sostenibilità, di ambiente, di energia.

Poi che cosa è accaduto?
Un giorno ci chiamarono i rappresentanti di Rifondazione comunista, dei socialisti e altri di area di sinistra perché volevano parlare con noi. Eravamo in tre, io e due miei amici e la cosa ci fece sorridere perché ci siamo immaginati che questi politici vedessero in un gruppo di tre persone già una forza politica.

E dopo?
In Umbria nel 2009 abbiamo eletto il primo consigliere, un po’ aiutavamo lui, un po’ continuavamo a seguire le questioni nazionali e poi c’è stato il boom del 2013 in cui abbiamo vinto le elezioni politiche.

Lì è cambiato tutto…
Dalla strada ci siamo trovati dentro al palazzo e ci siamo dovuti reinventare perché non avevamo idea di quello che dovevamo fare. Solo in Senato eravamo 54 e nessuno di noi aveva mai fatto esperienza, neppure in un consiglio comunale.

Chi trainava?
Eravamo acerbi e senza un leader. All’inizio hanno fatto da apripista i romani: Alessandro Di Battista, Roberta Lombardi e Vito Crimi.

Casaleggio padre e Grillo all’epoca, fattivamente, che ruolo avevano?
Loro due hanno sempre avuto un ruolo marginale rispetto all’attività quotidiana del Parlamento, intervenivano solo sui grandi sistemi.

Quindi chi comandava?
Era un’autogestione. Avevamo linee guida consolidate, per esempio sull’energia, sull’ambiente e da lì ci muovevamo.

Poi cos’è cambiato con l’arrivo di Luigi Di Maio a capo politico?

Purtroppo non è cambiato nulla. In sette anni non eravamo riusciti ad avere una struttura verticistica, indispensabile se si è una forza politica con quei numeri, con il 33%. Questo è uno dei motivi della disfatta.

Che cosa pensa di lui?
Per un certo periodo di tempo è stata la persona giusta al momento giusto. Resta una delle migliori espressioni del partito, vedremo con gli Stati generali, che io chiamerei più «Stati particolari», visto che ci si concerterà solo su alcuni punti per disegnare
il futuro del Movimento.

Qualcuno a un certo punto, di fronte all’emorragia di consensi, è andato da Beppe Grillo a chiedere aiuto?
Ci sono stati tentativi di organizzazione, però il punto è che a nessuno è mai interessato né convenuto darsi un’organizzazione. Nella Lega ho trovato una struttura organizzata, dove sai sempre a chi riferirti e quando si decide qualcosa si va dritti al punto. In questo modo sei in grado di dare risposte ai cittadini, cosa che con il Movimento non è possibile.

Il ruolo di Rocco Casalino?
È un bravo professionista, capace prima di creare Luigi Di Maio e poi di creare Giuseppe Conte. Il suo ruolo è quello di gestione della cosa pubblica del partito, o perlomeno dei vertici.

E come descriverebbe Conte?
Una figura mitologica, metà Pier Ferdinando Casini e metà Rocco Casalino. Cioè un misto di capacità di mediazione democristiana e di ostentazione mediatica.

A Davide Casaleggio, invece, che cosa interessa?
Il giocattolo.

Rousseau?
Sì.

A prescindere dal Movimento, quindi?
Sì. Il Movimento è solo una delle possibili applicazioni.

È vero che i portavoce dei Cinque stelle sono il modo di «controllare» gli esponenti del partito?
Il ruolo della comunicazione è quello di filtrare verso l’esterno le informazioni e i temi più utili alla causa.

Ma è stata una scelta vincente?
No, infatti è un altro dei problemi, ma nessuno ha pagato per le scelte sbagliate. Uno dei punti critici dei Cinque stelle è proprio quello di dare sempre la «colpa agli altri».

Cos’è il suo ex partito?
La definizione migliore l’ha data Alessandro Baricco in The game. Il Movimento è una specie di algoritmo, un gioco. Ci sono delle regole, se non ti stanno bene te ne vai. Le regole non le cambiano, a meno che non ci sia un patatrac.

Che limite ha?
Non ha capacità di analisi politica, né prima delle elezioni – come in Emilia Romagna – né dopo le sconfitte, perché è distante fisicamente dalla gente.

Quali sono le regole alle quali a un certo punto si è ribellato?
Per esempio il fatto che i parlamentari erano invitati a passare tutto il tempo a Roma e non sul loro territorio a parlare con gli elettori.

Quando ha manifestato la volontà di uscire dal gruppo, qual è stata la reazione dei Cinque stelle?
(Ride). Ho scoperto che tutti avevano il mio numero di cellulare, ma non lo avevano mai usato.

Ce ne sono altri di suoi ex colleghi che se ne andrebbero volentieri?
Il malcontento è diffuso e dilagante.

Qual è la ratio con cui si prendono le decisioni all’interno del Movimento, per esempio sui casi Diciotti (Salvini salvato) e Gregoretti (Salvini a processo)?
L’autoconservazione.

L’attaccamento alla poltrona è un tema vero?
Assolutamente sì. Anche il famoso terzo mandato era evocato già dalla scorsa legislatura da personaggi più che insospettabili. Checché ne dicano, quelli che oggi stanno al secondo mandato hanno a cuore questo tema.

Cosa servirebbe all’M5s per salvarsi?
Un leader che superi il 30 per cento dei consensi…

Tipo un Salvini?
(Ride). Esatto.

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