A Ferrara riapre il Palazzo che celebra la grandezza estense. E accanto all’autore simbolo che ne ha realizzato gli affreschi, Francesco del Cossa, le opere per ricostruire le sue straordinarie «parentele» artistiche.
Riapre la Delizia di Schifanoia a Ferrara, con l’illuminazione emozionante e progressiva (ideata dallo studio Pasetti) del più notevole ciclo astrologico del Rinascimento, concepito parallelamente alla Camera degli Sposi di Andrea Mantegna a Mantova, da Francesco del Cossa, al quale ho dedicato l’ultima esaustiva monografia. È noto che, per l’insufficiente riconoscimento del suo merito, il grande artista, consapevole dell’importanza della sua impegnativa impresa ferrarese, indignato e offeso, riparò a Bologna, trovando benevola accoglienza alla corte dei Bentivoglio.
Alla fine della sua parete, con i mesi di Marzo, Aprile e Maggio, Francesco aveva chiesto, con candida convinzione, al duca Borso d’Este il giusto riconoscimento per il suo impegno. Il 25 marzo 1470 si lamenta per essere stato pagato per le pitture fatte a Schifanoia nella stessa misura degli altri pittori, nonostante egli per lungo e assiduo studio e lavoro ritenga di meritare di più. È notevole che, oltre al riconoscimento del proprio merito («et massime considerando che io, che pur ho incomenciato ad avere uno pocho di nome, fusse tratato et iudicato et apparagonato al più tristo garzone de Ferara»), e dello studio («et continuamente studio»), il Cossa rivendica l’uso «de oro et de boni coluri», e chiede non il giusto ma il dono di «quella parte li pare, de gratia et benignitade Sua», per aver «lavorato quaxi el tuto a frrescho, che è lavoro avantazato e bono, e questo è noto a tuti li maistri de l’arte».
Insomma, Francesco chiede dignità. Borso risponde raccomandandogli di esser contento di quanto avuto. Dopo questo rifiuto, con lo scatto d’orgoglio di Francesco, la migliore scuola ferrarese si trasferisce a Bologna, dove già aveva dato, e continuava a dare, altissime testimonianze della sua drammatica visione il grande scultore pugliese Niccolò dell’Arca. Il percorso di Francesco del Cossa, così, si divarica, per dar vita a un nuovo Rinascimento a Bologna che tenga conto di questi fatti essenziali e del prezioso, vitale, innesto di gemme ferraresi.

A Ferrara resta il ruolo centrale nella formazione e nella produzione del pittore, in dialogo con Piero della Francesca, attivo nella città estense in cicli perduti. Dunque, oggi Ferrara e Bologna celebrano insieme, per la prima volta, un grande pittore ferrarese.
Fulcro della sezione bolognese è la ricostruzione del polittico Griffoni per la basilica di San Petronio, diviso in nove sedi tra Europa e America, e che costituisce l’essenza della palingenesi bolognese di Francesco del Cossa, che nulla rinnega della sua formazione ferrarese. Degli scomparti del polittico, attraverso la scansione digitale degli elementi che lo componevano, è stata predisposta la sorprendente riproduzione, con assoluta, mimetica, fedeltà grazie al metodo elaborato da Adam Lowe, che, in Italia, ha già dato ottime prove.
Nella mia monografia su Francesco del Cossa (Skira, 2003) la storia del polittico Griffoni, anche dopo gli studi e le proposte di Roberto Longhi, è minuziosamente descritta. Qui mi preme illustrare la ragione della mostra di Francesco del Cossa su due sedi. Anche se il primato ferrarese su Bologna è incoercibile, dopo gli studi di Roberto Longhi sulla Officina Ferrarese, la percezione, nell’ambito degli studi specialistici, dell’esistenza di un’alta e nobile stagione rinascimentale a Bologna, è molto flebile. Già nel 1890 Adolfo Venturi scriveva che «Bologna nel Rinascimento non ha una propria, varia e ricca fioritura artistica» e che «quanto resta oggidì dell’arte bolognese del Quattrocento, prima del Francia, se si eccettuino le tavole di Marco Zoppo, merita appena uno sguardo».
Una facile riprova di questa prospettiva critica distorta è stata fornita, come abbiamo già scritto, dalla mostra Cosmè Tura e Francesco del Cossa. L’arte a Ferrara nell’età di Borso d’Este, curata da Mauro Natale a Palazzo dei Diamanti, sul finire del 2007. Fin dal titolo, Francesco del Cossa era chiamato a figurare, potremmo dire contro la sua stessa volontà, come artista di spicco dell’età di Borso d’Este, ovvero quello stesso duca al quale Cossa aveva indirizzato la lettera di indignata protesta. Senza contare che uno dei momenti salienti dell’esposizione di Palazzo dei Diamanti coincideva con la ricostruzione, peraltro parziale, proprio del grande polittico concordemente concepito da Cossa ed Ercole de’ Roberti per Floriano Griffoni, anche se non è dato intendere, se non in forza dello stile, in che modo un’opera destinata alla cappella petroniana di una delle famiglie più strettamente legate alla signoria dei Bentivoglio possa considerarsi espressione dell’arte estense.
Perché allora non ricondurre allo stesso milieu «ferrarese» – cosa che la mostra del 2007 si è ben guardata dal fare – altri capolavori cosseschi come la tela commissionata da Alberto de’ Cattani e Domenico degli Amorini per il palazzo della Mercanzia a Bologna (Pala dei Mercanti, oggi nella Pinacoteca Nazionale di Bologna). Si delinea così il netto profilo di una cultura locale autonoma che trovò la ragione prima del suo affermarsi, anche in campo artistico, nell’illuminato mecenatismo dei Bentivoglio. Sono molte ed evidenti le ragioni per promuovere una mostra che, in dialogo con Ferrara, sappia restituire e diffondere l’identità rinascimentale di Bologna, fino a oggi sommersa, o quantomeno soffocata.
L’esposizione dovrebbe radunare un numero scelto ma significativo di pezzi, a partire dal principale artista bolognese del momento, Marco Zoppo: accolto nella bottega dello Squarcione, primo maestro di Mantegna, lo Zoppo fu uno di quei giovani – e tra i più spavaldi – venuti a Padova da ogni parte d’Italia per educarsi. Una volta tornato in patria, Zoppo arricchirà ulteriormente la sua formazione attraverso «l’incontro vivificante con l’arte di Piero» (Calogero), che secondo l’affidabilissima testimonianza di Luca Pacioli, aveva lasciato alcuni suoi capolavori, oggi perduti, anche a Bologna. In effetti, lo smagliante retablo dipinto da Zoppo per la chiesa di San Clemente (1459) e la più malconcia Croce dei Cappuccini rivelano un’inedita sintesi fra la lezione padovana di Donatello e la «pittura di luce» di Piero della Francesca.
Proprio in questo senso, l’esperienza determinante dello Zoppo preparò di fatto l’avvento di un artista ancora più grande: Francesco del Cossa. Ed è qui che la mostra dovrebbe raggiungere il suo acme, mettendo in fila le vetrate realizzate dai fratelli Cabrini su disegno del Cossa (Gallerie dell’Accademia di Venezia; Musée Jacquemart-André di Parigi), la Pala dell’Osservanza oggi a Dresda (1467 circa), la Madonna del Barracano, affresco del 1472, la Pala dei Mercanti ora alla Pinacoteca (1474). La ricostruzione del polittico Griffoni (1473) a Bologna, con gli originali a fianco delle citate riproduzioni, è l’inizio della definizione di questa cultura sincretica.
Come già ricordato, l’esecuzione del polittico petroniano diede avvio «al più formidabile e producente sodalizio che la Storia dell’Arte conosca» (Volpe), ossia quello tra lo stesso Cossa e l’enfant prodige Ercole de’ Roberti, formato nel cantiere di Schifanoia. I dipinti di questi due straordinari artisti dovrebbero allora dialogare con le opere del terzo protagonista dell’arte bolognese del tempo, che contribuì a sollevare la città felsinea al rango di vera e indiscutibile capitale del Rinascimento italiano, ovvero lo scultore Niccolò dell’Arca.
La difficile eredità di Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, che condusse l’arte emiliana al sublime approdo dell’«italianizzazione dello stile» (Longhi), fu in parte raccolta a Bologna, nel corso dell’ottavo decennio, da Antonio da Crevalcore e da un altro pittore ferrarese trapiantato a Bologna, l’autore della cosiddetta Pala Grossi, esposta in questa occasione a Ferrara, Giovanni Antonio Bazzi. Presenze di formidabile importanza per i caratteri precipui di questo distinto rinascimento a due piazze. La fusione sarà compiuta nella figura di Lorenzo Costa, ferrarese trapiantato a Bologna, organico ai Bentivoglio.
