Attraverso le immagini scattate sui set di capolavori del cinema come Amarcord e Casanova, il fotografo Franco Pinna ha colto
la sostanza più affascinante del grande regista. Ferrara celebra questo sodalizio di arte e amicizia.
Ho conosciuto Federico Fellini nel 1980. Le condizioni erano ideali. L’ultimo dei grandi pittori, Balthus, era stato invitato da Luigi Carluccio alla Biennale di Venezia; e Balthus, per l’inaugurazione, aveva invitato i suoi amici romani, i più stretti: Dario Durbé, lo studioso dei Macchiaioli e dell’Ottocento italiano, Renato Guttuso, Umberto Tirelli, il sarto e costumista di Luchino Visconti, e Fellini. Gli erano cari come nessun altro.
Erano stati vicini a lui nel lungo periodo, dal 1964 al 1977, in cui fu direttore dell’Accademia di Francia a Villa Medici, su nomina di André Malraux. Difficile immaginare fantasie più lontane di quelle di Balthus e di Fellini, ma, per entrambi, il tempo dell’infanzia e adolescenza era l’origine delle ispirazioni più genuine. Con il titolo Mitsou e un testo di Rainer Maria Rilke, il pittore racconta la storia del giovane artista e del suo gatto. Sulla copertina del libro appare per la prima volta il soprannome con cui Balthazar firmava i suoi lavori da bambino. La trama del libro prefigura la sua passione per i gatti, che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita e sarebbe riemersa nel suo Autoritratto. Il re dei gatti, del 1935.
Mi sembra un buono spunto per derivarne, come potranno confermare quelli che l’hanno frequentato, una comune passione per i gatti; ricordo chiaramente che le case di Sant’Arcangelo e Pennabilli di Tonino Guerra ne erano animate e sono certo che animavano anche la casa di Fellini. Lo deduco dalla sua natura, in parte gattesca, in parte leonina. D’altra parte lo stesso nome richiamava il gruppo di appartenenza, ghepardi, puma, giaguari, leopardi, linci: tutti felini. E non è un caso che, come per molti, peraltro, tra i suoi poeti vi fosse Giacomo Leopardi, nel quale domina il tema della luna. Lo conferma Ermanno Cavazzoni, lo scrittore de Il poema dei lunatici che ispirò La voce della luna.
Parlo per supposizioni: non sono stato a casa di Fellini, ma l’ho incontrato in circostanze pubbliche, e sempre per il suo rapporto con gli artisti. Lo stesso sentimento di Balthus provava infatti un altro artista visionario e singolare, Fabrizio Clerici, uno dei milanesi che ha più sentito la meraviglia straziante e straziata di Roma, dei suoi martiri, delle catacombe, della pompa, della grande bellezza così come l’ha rappresenta nel suo dipinto più noto, Sonno romano. Non ho dubbi che Fellini amasse quel dipinto così tragicamente affine alle invenzioni della sua, più inquieta che ilare, immaginazione.
Il mio riferimento è alla occasione nella quale incontrai Fellini, e gli parlai a lungo, con il vantaggio del campo. A casa mia. A Ferrara. Sono passati quasi 40 anni da quella bella giornata di autunno del 1983 in cui, nella casa di Ro, dove sono vissuti i miei genitori e dove è stato ambientato il film di Pupi Avati Lei mi parla ancora, che racconta la loro lunga vita amorosa, arrivarono in frotte gli amici e gli estimatori di Fabrizio Clerici dopo l’inaugurazione della mostra a Palazzo dei Diamanti per i 70 anni dell’artista. Il curatore era Federico Zeri: la sua autorevolezza come storico dell’arte antica era la miglior garanzia per un pittore colto, trascurato se non ignorato dalla critica, come Clerici.
Eppure per molti la mostra di Ferrara fu una rivelazione. Non per gli «happy few» che convennero a casa, uomini di gusto internazionale e sofisticato. C’erano Alvar González-Palacios e Mario Tazzoli, Enrico d’Assia e Umberto Tirelli, Indro Montanelli e Colette Rosselli, Federico Fellini e Giulietta Masina, Antonello Trombadori e Carlo Guarienti, Giorgio Soavi e Giorgio Zampa, Marina Cicogna e Mario Lanfranchi, Pasquale Chessa e Piero Buscaroli; Maurizio Fagiolo dell’Arco e Tiziano Forni, il coraggioso gallerista di Clerici. Una giornata indimenticabile.
Fellini in quella giornata fu curioso e affettuoso. Finse, probabilmente, di conoscere la mia attività di critico, mi sorrise vedendo le cose di Guttuso, di Neri Pozza e di Luigi Servolini che allora erano nelle stanze dei miei genitori, prima che io li travolgessi con le opere dei maestri di arte antica. Nel 1983 non era ancora arrivato il San Domenico di Niccolò dell’Arca, ma era vivo e presente mio zio Bruno Cavallini, che sarebbe morto l’anno dopo. Lo stesso in cui io mi avventurai a scrivere di un altro amico pensoso e onirico di Fellini: il pittore Carlo Guarienti, di cui la curiosità di Marco Gulinelli ha trovato traccia nella biblioteca di Federico Fellini, così come risulta ne I libri di casa mia, il volume pubblicato in occasione dell’apertura del Museo Fellini in Castel Sismondo.
Al numero 753 del catalogo si trova la pubblicazione: Carlo Guarienti, a cura di Vittorio Sgarbi, introduzione di Alberto Moravia, Milano, Fabbri 1985. Sul frontespizio si legge la dedica: «A Federico, con grande ammirazione e simpatia. Carlo. Roma 26 novembre ’85». Si tratta, come Clerici, come Balthus, di pittori attratti dal sogno, che potremmo dire, come anche di Fellini, «surrealisti». Ma sarebbe poco perché in ognuno di loro c’è letteratura, infanzia, dolore nostalgia, ricordo. O, come direbbe Fellini, «Amarcord».
La cosa che più mi colpisce, nello stretto legame che ognuno di loro ha dichiarato con Fellini, è che se ne sono tutti andati: Antonioni, Guerra, Balthus, Clerici, Pennisi, Durbé, Tirelli, Guttuso. Vive solo, e ha quasi cent’anni (è nato nel 1923), Carlo Guarienti, cui potremmo chiedere di raccontarci il suo Fellini. E intanto possiamo ricercarlo nel diario di una vita d’artista che costituiscono le fotografie di Franco Pinna, opportunamente definito «fotografo di set», e che se n’è andato prima di tutti, nel 1978.
Il suo dialogo con Fellini è folgorante, e parte da Giulietta degli spiriti per arrivare al Casanova. Questa di Ferrara, nel prossimo Spazio Antonioni, è una mostra fotografica. Ma, senza nulla togliere al museo ricco e variopinto che il mio amico Andrea Gnassi ha fortemente voluto a Rimini, la serie di immagini di Pinna ci fa capire dell’uomo, del suo immaginario, più di qualunque saggio o allestimento. Pinna ha vissuto «dentro» Fellini.
Rivediamo insieme il fotografo e il regista; e naturalmente, nella sua libera e fantasiosa intelligenza, era stato Fellini a fotografare l’amico: «Franco Pinna, forse il fotografo più delicato e discreto che io abbia incontrato nella mia carriera, scattava quasi sempre le sue foto un po’ prima del ciak, sapendo bene quanto m’innervosisse prolungare anche solo di pochi minuti la scena dopo che avevo dato lo stop… Ecco, Pinna era molto concentrato nel suo lavoro. Procedeva con una serietà paragonabile a quella di un fotografo di polizia, che arriva sul luogo del delitto e il commissario gli dice di fotografare tutto con il massimo scrupolo. Quella sua serietà pensosa, talvolta, ti faceva quasi tenerezza; ma sempre ti dava un senso di grande tranquillità […]. Con Pinna, io ero sicuro che avrei avuto la documentazione più corretta e fedele di quanto stavo facendo, […] testimone fedele e personale insieme di quello che è l’ambiente di un set, la realtà del cinema nel suo farsi».
E come non riconoscere, nella precisione di queste parole, i ritratti di Federico e la sua vita fanciullesca, nel suo dominare la scena prima e più degli stessi attori, nel suo vivere il film che, per noi, è storia d’altri che diventa sentimento nostro, e per lui era la sua vita, in un’ininterrotta autobiografia? In quelle fotografie capisci le affinità con i pittori, disegnatore, prevalentemente erotico, lui stesso. La scelta delle immagini di Claudio Domini e Giuseppe Pinna è perfino commovente, ci mostra quello che abbiamo visto e soprattutto quello che non abbiamo visto: le Odalische e la sagoma del Rex o il dolente ammiccamento erotico di Magali Noël, Gradisca, in Amarcord.
Sono invenzioni nell’invenzione, e ci riguardano come fossero fantasie nostre. Così, nel Casanova, la stanza dei ritratti, che deve aver agitato la memoria di Giuseppe Tornatore per La migliore offerta, vive in uno spazio che va al di là di Fellini. Ed è l’occhio vorace di Pinna che tutto vuole contenere e raccontarci la vita e i sogni di un amico che sono diventati anche i suoi. Entriamo in sala. Si abbassano le luci.
