Il suo addio ai Cinque stelle, per fondare un nuovo partito governista e atlantista (Insieme per il futuro), è soltanto l’ultima delle giravolte del ministro degli Esteri. E nessuna delle sue molteplici prese di posizione e battaglie politiche, tanto spesso antitetiche, ha avuto il successo sperato. Con conseguenze per lui e, purtroppo, anche per il Paese.
«Ogni parlamentare è una cozza, gli va ricordato ogni giorno. Quando cammina con il pacco dei giornali sottobraccio, la schiena leggermente curva e l’espressione di chi non deve chiedere, fa un’imitazione perfetta della cozza. Si trasforma in cozza in cravatta». Beppe Grillo non avrebbe mai immaginato che quella caricatura sarebbe diventata il ritratto del suo più promettente epigono: Luigi Di Maio. «Il guaglione di Pomigliano d’Arco», per la vecchia ritmica, è ora il più uguale di tutti. È il Giuda che s’è venduto per «trenta bitcoin». Anche se al suo partitino, formato da una sessantina di valorosi, ha dato un nome celestiale: Insieme per il futuro.
Giggino: uno, nessuno e centomila. Dall’intransigenza degli esordi all’incontenibile poltronismo. Quasi un decennio in parlamento, ritmato dai più plateali fiaschi della storia repubblicana. Assistenzialismo, politica estera, stato padrone, ambientalismo tossico. L’ex capo pentastellato, poi emblema dei grillini al governo, non ne ha mai azzeccata una. A dispetto delle recenti lodi degli avversari più antitetici di sempre: dal leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, al governatore campano, Vincenzo De Luca.
Di Maio ha surclassato tutti gli altri. Quelli «abbarbicati come cozze ai loro privilegi», li sfotteva l’Elevato. È l’uomo di palazzo, l’amico di tutti, l’agitatore fattosi conciliatore, il concavo che si compiace della convessità. Il doroteismo ostentato durante la battaglia per il Quirinale gli era valso già allora il plauso di giornaloni e commentatori. Il più smagliante andreottiano vivente. La scissione è l’atteso apice. Il meritato suggello allo strepitoso talento da trasformista. L’ultimo, sbalorditivo, incarico resta la Farnesina: lo scoglio più levigato dell’oceano parlamentare. Anche se adesso sembra concretizzarsi il dileggio che gli rivolse il mefitico Sergej Lavrov, ministro degli Esteri del Cremlino: «Ha una strana idea della diplomazia. È stata inventata proprio per risolvere situazioni di conflitto e tensione, non per fare viaggi a vuoto o assaggiare piatti esotici a ricevimenti di gala».
Non a caso, «Giggino o’ globetrotter» è ormai esautorato da Mario Draghi: stremato dalle beghe in patria, l’ex premier ha ritrovato motivazioni nella complessa gestione del conflitto paneuropeo. Di Maio, dopo aver definito «un animale» Vladimir Putin, si è scansato. Anche perché l’offesa era stata preceduta, negli anni scorsi, da memorabili sviolinate. I Cinque stelle sono stati a lungo il partito più filorusso in circolazione. E lo stesso Di Maio s’è profuso in salamelecchi. Dalla piaggeria all’insulto. Solo due anni fa, ringrazia pubblicamente il presidente russo per «tutto il sostegno» dato all’Italia nella lotta alla pandemia. E pure le sanzioni a Mosca sono un errore: «Vanno tolte» giura nel 2017. Intanto, benedice l’alleanza tra Putin e Donald Trump: «Ci deve rassicurare».
Ancor più sperticati gli elogi alla Cina, nonostante la leggendaria gaffe del 2018 a Shanghai, quando ribattezza il leader cinese, Xi Jinping: «Ho ascoltato con molta attenzione il discorso del presidente Ping». Comunque sia: superato l’ostacolo linguistico, un devoto Di Maio, allora ministro dello Sviluppo economico, firma il famigerato memorandum sulla «Nuova Via della seta». Un accordo «puramente commerciale», ma dai chiari e taciuti risvolti politici, di certo poco gradito oltreoceano. Doveva essere, negli intendimenti giggineschi, una svolta per l’economia: «Ci aspettiamo un riequilibrio della nostra bilancia commerciale». È andata al rovescio: troppo made in Cina in Italia e poco made in Italy in Cina. Chiamato alla Farnesina, il ministro è dunque diventato il più atlantista su piazza. Tanto da giustificare il suo addio al Movimento con i tentennamenti sull’Ucraina di Giuseppe Conte.
Tutto. E il suo contrario. Indimenticabile, a febbraio del 2019, il viaggio a Parigi per incontrare Christophe Chalençon, il leader dei Gilet gialli che evoca un colpo di stato militare in Francia. «Il vento del cambiamento ha valicato le Alpi. Ripeto. Il vento del cambiamento ha valicato le Alpi» annota gaglioffo l’allora grillino su Facebook. E al suo fianco c’è l’amico di sempre: Alessandro Di Battista, che ora però gli dà dell’«ignobile» vista la definitiva giravolta. Poco importa. Giggino o’ globetrotter sfreccia da una convinzione all’altra. Un peregrinare che l’ha fatto ascendere all’empireo draghiano. Il premier, sebbene non formalmente, benedice la nascita di Insieme per il futuro, che rende autonoma la maggioranza dalle paturnie dei Cinque stelle, impegnati in un’asperrima lotta per la sopravvivenza.
Negli ultimi mesi, Giggino ha maldestramente cercato di far dimenticare tutti i peccati originali. Anche la furibonda avversione a investimenti energetici: un’altra grisaglia dismessa dopo l’epocale crisi negli approvvigionamenti. I no pentastellati restano leggendari. A partire da quelli sulle trivelle. Il 25 gennaio 2019, per esempio, in Senato viene approvato l’emendamento che blocca 150 esplorazioni petrolifere. Di Maio, all’epoca pure vicepremier, esulta: «Lo stop alle trivelle è una battaglia per la sovranità nazionale. Io alla mia terra ci tengo, all’Italia ci tengo, al mio mare ci tengo. Non ho alcuna intenzione di svendere nulla ai petrolieri del resto del mondo». Così, adesso non rimane che sperare, per esempio, nel raddoppio della Tap, il gasdotto che dall’Albania arriva sulle coste pugliesi. Lo stesso che Di Maio e colleghi hanno sempre osteggiato. Fino alla capitolazione, giustificata da fantomatici inganni, nell’ottobre 2018. «Ho studiato le carte per tre mesi» riferisce uno stremato Di Maio. «Vi posso assicurare che non è semplice dover dire che ci sono penali per quasi 20 miliardi di euro». Colpa dei biscazzieri che hanno governato prima di lui, ovvio: «Quelli che sono andati a braccetto con le peggiori lobby del Paese» chiarisce. «L’unica cosa che ci dicevano è che eravamo nemici del progresso. Hanno blindato questa opera che resta non strategica e si poteva evitare».
Invece, adesso i suoi annunciano festanti il raddoppio della Tap. E Di Maio è costretto a volare in Africa per pietire gas con cui rimpiazzare le forniture russe, al fianco dell’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi. Il sigillo al voltafaccia è il capitombolo sulla siccità. Avete presente quei felloni che, nel tempo, hanno lucrato su ottusi rifiuti? Per esempio, tutti i pentastellati della penisola, dai consiglieri comunali ai ministri? Ripensandoci, a Giggino, ormai dissociato, sale il sangue alla testa: «La crisi di oggi è anche figlia di una politica che fino al passato più recente ha detto no a qualsiasi investimento in nome di un ambientalismo ideologico, privo di senso e dannoso. Anche per l’ambiente stesso».
Inarrivabile. Si attende medesimo riposizionamento sul Bonus 110, diventato emblema di diseconomie, sperperi e frodi. «Quasi cinquemila nuove imprese grazie al superbonus» twittava estasiato. Peccato siano quasi tutte improvvisate. Tanto che la Guardia di finanza ha scoperto già truffe per 5,6 miliardi. Eppure, Di Maio intimava: «Va rinnovato e chi si oppone non fa gli interessi degli italiani». A partire da Draghi, quindi. Che medita l’altolà: basta fondi e proroghe. E adesso, cosa farà lo scissionista neocentrista? Urge allineamento. Del resto, il fragile futuro dei dimaiani passa dal ripudio del passato. Un’arte che il ministro ha affinato nel tempo. Persino il giustizialismo viene deposto. Lo spunto è stata l’assoluzione di Simone Uggetti, ex sindaco Pd di Lodi, sentenza poi annullata in Cassazione. Fu una «gogna mediatica», si rammarica nell’occasione il ministro degli Esteri, alimentata da modalità «grottesche e disdicevoli».
Già: non ne ha mai azzeccata una il neo padre della patria, indispensabile puntello del governo. Il suo capolavoro resta però il reddito di cittadinanza. La misura viene introdotta poco prima delle elezioni europee del 2019, con l’ambizioso obiettivo di «eliminare la povertà». Lo sentenzia lo stesso Di Maio, più festante di un bomber che ha appena gonfiato la rete, dal balcone di Palazzo Chigi. I risultati non sono quelli sperati. Il sussidio non va a chi ne ha più bisogno. E disincentiva la ricerca di lavoro, lamentano gli imprenditori.
Eppure, lo strappo di Giggino è salutato dagli illustri colleghi come l’evento del decennio. Si prendevano a vaffanculate. Adesso si trattano da statisti. «Quel ragazzo è proprio bravo» certifica il Cavaliere. «Credo che tra i giovani politici lui sia uno che è cresciuto, ha fatto il suo percorso, lo guardo con attenzione» concorda Beppe Sala, sindaco di Milano e aspirante alleato. D’accordo il collega che guida Venezia, Luigi Brugnaro: «A noi piacciono i coraggiosi e Luigi Di Maio lo è. Magari si unisse a noi!» esorta riferendosi al suo gruppuscolo centrista in dissoluzione.
E poi c’è Mara Carfagna, garbata ministra e ipercritica forzista: «Di Maio, che stimo come collega di governo, ha deciso di consumare una scissione molto coraggiosa». Persino Vincenzo De Luca s’è ricreduto. In suo onore, aveva inventato soprannomi da leggenda, vedi «Giggino ’o webmaster». Ora riformula: «Se c’è una maturazione politica, io credo che possa essere un bene per l’Italia». E quella sovrabbonda, indubitabilmente. Tanto che il nuovo Forlani guadagna l’interesse pure di un titano della prima repubblica quale Clemente Mastella. Per il sindaco di Benevento, il ministro è il virgulto democristiano, l’erede sempre cercato: «Anche da soli, se ci mettessimo insieme, potremmo arrivare al cinque per cento» gongola. Così, il dileggio del Dibba diventa profezia: «Diventeremo come l’Udeur, buono per la gestione di poltrone e carriere». Ingeneroso. Giggino ha fatto le cose in grande. A partire da quel nome altisonante: Insieme per il futuro. E stavolta più siamo, meglio stiamo.
