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La sgradita eredità

La sgradita eredità

Il mancato rilancio di Alitalia-Ita e un nuovo assetto per Monte dei Paschi mai concretizzato. Per non parlare dello stallo su Tim e lo smaltimento dei rifiuti nucleari. Partite difficili ma che «SuperMario» Draghi doveva risolvere. E che ora Giorgia Meloni si trova ad affrontare.


Alzi la mano chi nel giorno dell’insediamento a Palazzo Chigi avrebbe pensato che, tirate le somme, al termine del suo spicchio di legislatura Mario Draghi sarebbe stato bocciato in economia. Nessuno avrebbe potuto pretendere che nell’arco di 20 mesi (dal febbraio 2021 all’ottobre 2022) l’ex presidente della Banca centrale europea risolvesse tutti i dossier che da anni imbrigliano il Paese, ma almeno che non li ingarbugliasse ulteriormente lasciando un’eredità non proprio gradita al governo successivo. E invece se guardiamo agli sviluppi delle partite Ita (alla fine vuol dire Alitalia), Tim, Ilva ed Mps, ma anche rispetto a quanto successo in partecipate un po’ meno glamour come Sogin, la società controllata dal Mef che ha il compito di smaltire le scorie legate al nucleare, non si può che giudicare con il pollice verso l’operato dell’uomo del «Whatever it takes».

La sconfitta più cocente e anche quella che rischia di pesare di più sulle tasche dei contribuenti riguarda Ita e la scellerata decisione di temporeggiare e infine rispedire al mittente l’offerta arrivata dalla cordata composta Msc, il colosso dei trasporti marittimi di Gianluigi Aponte, e Lufthansa, che valutava il 100 percento della compagna aerea italiana nata dalla ceneri di Alitalia circa un miliardo. I retroscena di Palazzo raccontano di visioni differenti tra il direttore generale del ministero dell’Economia (che controllava al 100 per cento Ita) dell’epoca, Alessando Rivera, e l’altro grande consigliere economico del premier, il professor Francesco Giavazzi. Sembra che il primo abbia spinto per la soluzione Certares, il fondo americano che avrebbe contato sull’appoggio di Air France e Delta Air Lines e al quale fu accordata un’esclusiva. A un certo punto però di Certares si sono perse le tracce.

Poco male, ma il tira e molla ha fatto scappare Aponte (pare che il governo Meloni abbia fatto un tentativo per farlo tornare in partita) che oltre a una sostanziosa quantità di denaro aggiuntivo avrebbe portato in dote anche la tanto anelata italianità della compagna aerea. A conti fatti l’indecisione del governo Draghi – Lufthansa ha di recente chiuso un accordo per rilevare il 41 per cento di Ita per 325 milioni – ha fatto perdere agli italiani non meno di 200 milioni di euro e un progetto di grandi prospettive; l’obiettivo di Aponte era creare sinergie tanto sul versante delle crociere quanto su quello del trasporto merci.

Un’altra sonora sconfitta SuperMario l’ha vissuta sul dossier Monte dei Paschi di Siena che sembrava aver trovato in Unicredit il promesso sposo ideale per togliere le castagne del fuoco al Mef, obbligato dagli impegni presi con l’Europa a cedere in tempi congrui il suo 64 per cento della banca toscana. Su spinta del Tesoro la trattativa sembrava davvero ben avviata, almeno fino a quando – siamo nell’ottobre 2021 – un comunicato delle due parti fece seguito alle indiscrezioni di quei giorni: l’operazione è saltata. Si parlò di un Draghi a dir poco irritato con l’ad di Unicredit, Andrea Orcel, e di un tentativo del premier di radunare attorno a un tavolo tutti i banchieri più importanti del Paese per coinvolgere l’intero sistema nella privatizzazione di Siena. Ma niente. Da allora tante voci (l’ultima parla di nozze con Bper) e un altro aumento di capitale da 2,5 miliardi al quale lo Stato ha contribuito per i due terzi: più di 1,6 miliardi di euro.

C’è poi Tim. Un’azienda privata con un primo azionista francese come Vivendi, che però ha come secondo socio Cassa depositi e prestiti (con poco meno del 10 per cento) e soprattutto vanta tra i suoi asset aziende strategiche come Sparkle (cavi sottomarini e collegamenti internazionali per le telecomunicazioni) e asset di interesse nazionale come la rete. Insomma, alla fine chi ha delle mire sull’ex monopolista della telefonia deve passare per il via libera dello Stato (pena l’esercizio del meccanismo «Golden power» di salvaguardia della proprietà pubblica). Da qui non si scappa.

Detto ciò, va anche ricordato che Tim, da tempo, non versa in acque tranquille. Anzi. Ha un forte indebitamento (al lordo sono 31 miliardi) che ne condiziona inevitabilmente gli investimenti; e con i suoi 40 mila dipendenti si porta dietro una zavorra di costi che i suoi competitor (Vodafone, WindTre e Iliad) non hanno. Si tratta comunque di una preda ambitissima. Al punto che Kkr, il colosso americano americano del private equity, nel novembre 2021 propose un’Opa, un’offerta pubblica di acquisto, da quasi 11 miliardi di euro per acquistare tutta Tim.

La proposta d’Opa, mai materializzata in assenza di un via libera alla due diligence (il controllo dei conti) da parte del Cda, valutava il titolo 0,505 euro e probabilmente sarebbe stata ritoccata al rialzo. Alla fine non se ne fece nulla e se pensiamo che le azioni dell’ex monopolista oggi valgono la metà e il progetto di separare la società dei servizi da quella della rete è ancora in alto mare, c’è più di qualcuno che storce il naso e grida all’occasione persa. Dare la colpa della mancata risoluzione dei problemi di Tim a Draghi sarebbe ingeneroso. Dire però che sotto la guida di SuperMario ci si sarebbe aspettati una moral suasion più ficcante per trovare una ricomposizione sull’affare Tim, è doveroso.

Per l’ex presidente del Consiglio anche la «missione ex Ilva» era una priorità. Eppure siamo ancora qui a parlare di cassa integrazione, aumenti di capitale e necessità di trovare un socio che sostituisca Arcelor Mittal, con scontri anche tra il presidente Franco Bernabè, scelto appunto da Draghi, e l’amministratrice delegata Lucia Morselli. Il paradosso è che più si fanno decreti – da quando il gruppo è uscito dal controllo dei Riva se ne contano una decina – e più la situazione dell’acciaieria di Taranto si aggrava (approfondiamo tutti i problemi di Acciaierie d’Italia nel servizio a pag. 34).

Del resto, anche dove l’intervento dell’esecutivo Draghi è stato tangibile, l’esempio è quello della Sogin, la società controllata dal Mef con il compito di smaltire le scorie legate al nucleare, non è cambiato granché. Anzi. I fatti dicono che, su pressione dell’ex ministro per la Transizione ecologica e oggi amministratore delegato di Leonardo, Roberto Cingolani, il governo tecnico si era giocato la carta del commissariamento, con l’obiettivo di recuperare mascroscopici ritardi. Dal luglio 2022, infatti, la gestione Sogin è passata nelle mani dell’ex prefetto di Genova Fiamma Spena. Nel decreto di nomina veniva chiesto un cambio di passo. Sia per quanto riguarda il cosiddetto «decommissioning», cioè la disattivazione degli impianti con tutte le azioni da intraprendere nei tempi successivi alla cessazione del servizio delle centrali nucleari, che da quello del management. Risultati? A un anno di distanza non ne sono pervenuti. Sulla velocizzazione dei piani di smaltimento soprattutto per i siti più delicati neanche a parlarne, e lo stesso discorso riguarda l’avvicendamento nelle posizioni di «comando» tant’è che, come ricordato di recente dal quotidano La Verità, anche Emanuele Fontani, l’amministratore delegato precedente, è rimasto in azienda. Era stato voluto da Giuseppe Conte, il grande nemico di Mario Draghi.

Riceviamo e pubblichiamo la seguente richiesta di rettifica:

Con riferimento all’articolo “La sgradita eredità” pubblicato il 14 giugno si precisa quanto segue.

L’Organo Commissariale di Sogin S.p.A., nominato con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri il 19 luglio 2022 e insediatosi il 4 agosto 2022, ha predisposto e avviato un “Programma di accelerazione delle attività istituzionali” che ha consentito alla Società di arrivare a fine 2022 a registrare un avanzamento fisico complessivo delle attività di decommissioning pari al 39,52%. Nel 2023 è prevista un’ulteriore crescita del 4,2% che si stima porterà a realizzare nel biennio 2022-2023 un avanzamento di oltre 1’8% e complessivamente pari al 43,4%.

Nell’ambito del piano di accelerazione prosegue l’attività di sblocco dei grandi appalti, tra cui quelli per terminare il Cemex nel sito Saluggia e l’Impianto ICPF in quello di Rotondella, con l’assegnazione di procedure di appalto per complessivi 471 milioni di euro, fra cui 2 gare per servizi d’ingegneria multidisciplinare, recentemente assegnate

per 18 milioni di euro, che consentiranno di realizzare nuovi progetti di decommissioning per un valore stimato di 254 milioni di euro.

Riguardo il ruolo ricoperto da11’ing. Emanuele Fontani, assunto nel 2007 ed ex A.D. pro tempore della Società, si precisa che lo stesso rientrava nell’organico societario durante la reggenza del Presidente del Collegio Sindacale, prima dell’insediamento de1l’Organo Commissariale, il quale non ha conferito a11’ing. Fontani alcun potere procuratorio o di rappresentanza della Società.

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