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«La mia comicità è fresca di giornata»

«La mia comicità è fresca di giornata»

Enrico Brignano, in onda con un «one man show» su RaiDue, si racconta a Panorama: dai valori e la romanità che gli hanno passato i genitori alla gravidanza social della sua compagna e partner nella trasmissione tv fino alla crisi dei teatri. «La gente ha voglia di leggerezza. E io trasformo la quotidianità in satira di costume. Parlo alla gente e non guardo ai numeri dell’audience. Piaccio perché sono fatto così».


«Questo è un momento in cui la gente ha voglia di leggerezza». Enrico Brignano è assertivo. Al richiamo della critica facile, all’analisi dei dati Auditel che a Sanremo ha prodotto il tentativo goffo di un’indagine socioculturale, non ha voluto cedere. «A chi critica gli ascolti mi sentirei di dire, come si usa a Roma, “e allora venitece a farlo voi, se siete più bravi”. La sindrome del numero ha portato a programmi non proprio bellissimi, dunque non sempre qualità e quantità vanno di pari passo» afferma il comico e attore, che martedì 6 aprile è tornato su RaiDue con Un’ora sola vi vorrei, one man show di rara fattura. Lo spazio comico, 60 minuti in cui Brignano ha dato prova di saper «guardare l’oggi sotto la lente della satira di costume, che a volte deforma, a volte ingrandisce le cose intorno a noi», è breve ed efficace. Una mosca bianca in un panorama televisivo che sembra aver sacrificato il diritto alla seconda serata. «Immagino sia stata una “degenerazione”, sempre alla ricerca dei famosi ascolti» azzarda il comico, cercando di dare un senso alle dirette interminabili di reality e talent show. «A me, però, non interessano le percentuali, le considero cifre vuote; non mi interessa sapere quante persone mi hanno visto, se 500 o cinque milioni. In televisione, inoltre, credo che la sintesi sia la formula vincente, come succede all’estero e sul web. Per questo programma, quindi, facciamo un’operazione di asciugatura sui testi, in modo che siano all’osso come tempi e struttura, ma forti quanto a contenuti».

Da romano, di tanto in tanto, cade nel dialetto. Parte del pubblico, però, ha lamentato l’uso eccessivo della parlata gergale in tv e serie tv, Speravo de morì prima, Gomorra, Suburra.

Il dialetto è una risorsa bellissima e preziosa. Credo, però, vada dosata e, soprattutto, usata nel contesto giusto. Anni fa, ho fatto uno spettacolo in cui ho affrontato il tema con ironia: «Sono romano ma non è colpa mia». Di norma, direi che sono per l’uso dell’italiano, con qualche virata sul dialetto, che ha un’immediatezza, specie per la battuta comica, la cui efficacia difficilmente si ritrova nella lingua.

Un’ora sola vi vorrei, show comico, ha portato con sé molta attualità. Stesso schema per le prossime sette puntate?

Lo schema è rimasto lo stesso, stesso contenitore e contenuto «fresco di giornata». Si parte dall’attualità, cui si legano considerazioni, ricordi, divagazioni, sketch e monologhi. Ci sono poi riflessioni private, elevate all’universale. Sto per diventare padre per la seconda volta e molti mi chiedono cosa ci abbia spinto a tanto, dato quel che sta succedendo nel mondo. Parleremo anche di questo, di speranze e scommesse. Perlopiù in chiave comica, ma non senza un fondo emozionale e riflessivo.

Lei e Flora Canto, sua compagna e partner nello show, avete deciso di rendere «social» questa seconda gravidanza. Perché?

Non siamo malati di social, ma abbiamo condiviso questa notizia con gioia. Ci vuole coraggio? Forse sì, ma sicuramente è un bel segno di speranza: bisogna guardare avanti, avere fiducia nel futuro. Nel film Il corvo il protagonista diceva «Non può piovere per sempre». E io voglio credere che arriverà il sole, prima o poi.

Questo sole, i figli, li porterebbe mai sul palco, come ha deciso di fare con la sua fidanzata?

Non ci ho mai pensato. Io ho studiato molto nella mia vita e ho avuto la fortuna di avere ottimi maestri: Lino Banfi, gli indimenticabili Giorgio Albertazzi e Gigi Proietti. Non ho usufruito di scorciatoie, perché non le avevo. Forse, poi, se anche le avessi avute, per il tipo di educazione ricevuta dai miei genitori, non ne avrei approfittato. Vedremo che strada vorranno prendere i miei figli. Io sarò sempre dalla loro parte, sempre, però, nella consapevolezza che le cose vanno conquistate.

Lo scorso anno, ospite di Costanzo, ha detto che «l’ispirazione per la mia carriera è partita dalla famiglia». Com’erano i suoi genitori?

Onesti. I miei genitori hanno avuto una vita non facile, a tratti rocambolesca, eppure uno dei maggiori insegnamenti che mi hanno lasciato riguarda la necessità di essere onesti. Devo molto a mio padre per l’uomo che sono oggi, spero di esser capace di trasmettere tutto questo ai miei figli.

Da professionista, come ha vissuto la pandemia e le crescenti rivendicazioni dei lavoratori dello spettacolo?

I diritti dei lavoratori dello spettacolo sono rimasti inascoltati. La pandemia ha portato a galla fragilità, contraddizioni e la poca tutela riservata a questo settore; la politica ci ha sempre considerati giullari di corte, saltimbanchi. Non ha promosso iniziative, negli anni, è rimasta su posizioni stantie, senza prendere atto che lo spettacolo è cultura e la cultura, specie in questo Paese, è una risorsa imprescindibile. Ci vuole una riorganizzazione profonda, nuovi investimenti, un piano di aiuti concreto per le famiglie più fragili. Quando passerà la marea, resteranno migliaia di rottami delle piccole realtà spazzate via.

Cosa fare, dunque, a livello istituzionale per incentivare le riaperture di cinema e teatri?

Intanto, bisogna concentrarsi sui vaccini e renderli accessibili a tutti il prima possibile. Poi ci vorrebbero procedure consolidate per mettere in sicurezza le persone che vogliono andare a teatro e al cinema e, mi permetto di dire, a scuola. Bisogna riaprire, ce n’è tanto bisogno. E bisogna aiutare i teatri, i cinema e tutti i luoghi della cultura perché possano farlo. Quando parlo di aiuti, ovviamente, mi riferisco all’aspetto economico della faccenda.

Che non sembra, però, così ovvio.

No, ma è inutile proclamare: «Il giorno X riapriremo i teatri». I numeri dei contagi non lo permetterebbero, e nemmeno le condizioni dettate per la riapertura. Se il patto prevede che si faccia entrare solo il 25 per cento della capienza effettiva di pubblico, è evidente che soprattutto i teatri più piccoli non vengono messi in condizione di rialzare il sipario. Come pensano che un teatro da 200 posti possa pagare le spese e la compagnia che si esibisce, facendo entrare 50 persone?

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