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Eco follie, l’altra faccia del green

Difendere l’ambiente con gesti ideologici (si veda la vernice contro le opere d’arte), prendere decisioni insensate (come la montagna a numero chiuso), dichiarare guerra alle auto (tranne quelle elettriche per chi può…). Così la presunta difesa del pianeta sta facendo più danni che altro.


Il furore è arrivato perfino lassù, dove osano le aquile e i ricconi. L’inarrestabile moto gretino parte dalla Milano di Beppe Sala, sindaco coi calzini tricolore, e giunge sulle Dolomiti di Luca Zaia, arrembante governatore veneto. Mentre Greta Thunberg annuncia di voler appendere il megafono al chiodo, in Europa dilaga l’ecofollia. Ovvero: voler salvare l’ambiente con gesti ideologici, che rischiano di scatenare conseguenze altrettanto apocalittiche. Come l’incaponirsi della Commissione europea sull’auto elettrica. Mette a rischio 600 mila posti di lavoro, resta inaccessibile per la classe media e consegna alla Cina il monopolio sul litio. Intanto, proprio Pechino snobba Cop 27. La pomposa conferenza planetaria sul clima, a sua volta, è sponsorizzata da Coca-Cola, che Greenpeace invita a boicottare. Altri scalmanati attivisti si dilettano invece a imbrattare opere d’arte e bloccare le tangenziali. Per vedere l’effetto che fa, canterebbe Jannacci.

Tempi bui. D’imperante ecofollia. Pensavate, per esempio, che le Dolomiti fossero un paradiso ambientale? Poveri illusi. Come stanno davvero le cose lo spiega Zaia: «In piena stagione turistica invernale, e in quella estiva, la grande affluenza di automobili produce un notevole inquinamento». Dunque, urge correre ai ripari: Ztl dal 2024. L’incantevole Passo Gardena come il varco di Gratosoglio, oppressa periferia meneghina. Vette a numero chiuso. E salata gabella: per entrare a bordo di auto e moto sarà necessario prenotare i parcheggi, non esattamente a buon mercato.

Ma i dati sulle emissioni giustificano una misura che rischia di trasformare il già elitario approdo in una destinazione ancor più esclusiva? Le Dolomiti sono tutelate dall’Unesco, che nel 2015 commissionò un apposito studio sul valico dei Pordoi, uno dei cinque che diventeranno a traffico limitato. Conclusione: l’intensità delle fonti di inquinamento «non è in alcun modo sufficiente a innalzare le concentrazioni né a valori paragonabili a quelli delle stazioni a fondovalle, né tantomeno a livelli prossimi ai limiti normativi previsti».

Giovanni Campeol, ex docente di Valutazione ambientale all’Università Iuav di Venezia, già segretario generale della Fondazione Dolomiti Unesco fino al 2011, in un’intervista alla Verità spiega: «Vogliono creare una riserva indiana per soli ricchi. Va contro gli interessi del territorio e gli obiettivi Unesco: proteggere, promuovere e rendere fruibile un bene. Si sono inventati la bufala dell’inquinamento per legittimare il traffico limitato. Una mossa alla Greta».

L’epocale trovata servirà, vista anche la ricaduta d’immagine buonista, per i Giochi Olimpici invernali 2026, rinominati Milano-Cortina. E non a caso, si ritorna nel capoluogo lombardo. Tra i bastioni meneghini esercita Sala, l’inarrivabile precursore. Ha deciso di dare una svolta alla sua incerta carriera politica riciclandosi ecosindaco d’Italia. Già dallo scorso ottobre, a Euro 4 ed Euro 5 è vietato l’accesso in città. Non sono veicoli del Mesozoico. Molti sono stati immatricolati appena sette anni fa. Poco importa. I plebei del contado lombardo dovranno rinnovare il loro fatiscente parco macchine. A differenza dei mezzi comunali. L’Atm, controllata dal Comune, fa circolare infatti ben 350 bus Euro 3 e altrettanti Euro 5. Stessa mefitica classificazione di un centinaio di mezzi per la raccolta dei rifiuti, nonché diverse auto della polizia locale.

Ma il sindaco più amato della Ztl, dove i residenti si spostano a piedi e magari hanno l’elettrica nel box, non accetta scuse. I travet che calano ogni giorno dai paesi limitrofi a bordo dei loro inconcepibili naftoni, si organizzino: basta anticipare l’ingresso in città a orari antelucani o sfidare la calca nei mezzi pubblici. Mal che vada, resta l’opzione più drastica, seppur obbligata per molti: licenziarsi e cercare un lavoro all’esterno delle verdi mura meneghine. Perché a Beppe non salta in mente l’ovvio: i popolani respinti, forse, non hanno i danè per cambiare la loro auto. Con un’elettrica all’ultima moda, preferibilmente.Sala, del resto, anticipa soltanto le tonitruanti mosse della Commissione europea. A dispetto della drammatica contingenza economica, Bruxelles conferma di voler bloccare la vendita di diesel e benzina dal 2035. Nonostante la ricarica più costosa di un pieno, il fiasco degli incentivi, l’avversione dei consumatori. Carlos Tavares, a.d. del gruppo Stellantis, compendia: «Non vedo la classe media in grado di acquistare elettriche a 30 mila euro…». Ma che importa? Poveri appiedati e ricchi in carrozza.

E il mercato mondiale delle batterie, in mano ai cinesi? Lo strapotere sul litio, inquinantissimo tra l’altro, minaccia il futuro della mobilità. Una quota di mercato che potrebbe raggiungere l’80 per cento. Insomma, dal 2035 rischia di scomparire il settore dell’auto. Schiavi delle tecnologie e delle materie prime cinesi. A vita. Come Tafazzi che si martella felice gli zebedei con una deprecabile bottiglia di plastica, anche l’Europa esulta. La baronessa Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, è raggiante. Tocca però al collega che dovrebbe vigilare al Mercato interno, Thierry Breton, snocciolare i numeri della rovinosa disfatta. Seicentomila posti di lavoro persi nell’Unione lungo tutta la filiera. Entro il 2050 aumento della capacità elettrica del 15 per cento, per arrivare ai 150 gigawatt all’anno necessari per la transizione.

Le colonnine di ricarica, poi. Nel 2030 ne serviranno 6,8 milioni. Sapete quante ne abbiamo adesso? Appena 350 mila, disarmante 5 per cento del totale. Per di più, concentrato al 70 per cento in tre Paesi: Francia, Germania e Olanda. Ma per sostituire le auto tradizionali con quelle elettriche mancano le materie prime. Avremo bisogno, da qui al 2030, di 15 volte in più dell’attuale litio, quattro di cobalto e grafite, tre di nichel. Dunque? Il commissario Breton ha un nome che sembra uscito da un romanzo di Simenon. Eppure, non sbroglia l’intrigo. Anzi, lo complica. Due giorni dopo aver annunciato giubilante l’accordo, in una lunga intervista a Les Echos ricorda che nel 2026 scatterà un’enigmatica clausola di revisione. Ma soprattutto, dopo aver fissato sul calendario l’imminente catastrofe, invita comunque le case automobilistiche europee a continuare a produrre motori a combustione. Aspettate a esultare, però. Verranno inviate soltanto in Africa e America Latina, dove la domanda rimarrà sostenuta.

Del resto, laggiù le temperature sono già altine. Gli illuminati di Bruxelles possono dunque impipparsene del riscaldamento globale. Monsieur Breton adesso ammette: «Si tratta certamente della più grande trasformazione industriale che l’Unione europea abbia mai visto». Chi l’avrebbe mai detto. «Prevediamo che il passaggio alle auto elettriche distruggerà 600 mila posti di lavoro». Rivelazione sbalorditiva. E svela persino l’incidentale problema dei prezzi: «Un veicolo a zero emissioni è ora più costoso del 27 per cento rispetto al suo equivalente a benzina, vale a dire circa 56 mila euro in media». Difatti, in Italia le nuove immatricolazioni di macchine elettriche hanno raggiunto nell’ultimo mese la vertiginosa percentuale del 3 per cento sul totale. Nonostante i lauti incentivi.

Quindi? Bruxelles procede, come sempre, alla garibaldina. Von der Leyen avanza con il suo solito passo da film western. Al summit mondiale sul clima in Egitto firma un memorandum dopo l’altro, per sancire la cessione di sovranità economica. Peccato che la storica conferenza sia stata ignorata da Cina, Russia e India, considerati i più grandi inquinatori del pianeta. Gli stessi che beneficiano della nostra magnifica ossessione. Ecofollie, appunto. «È solo un bla bla bla» certifica l’indomabile Greta. Anche lei s’è tenuta alla larga del mega raduno dei governanti a Sharm el-Sheikh, che s’è concluso il 18 novembre 2022. Peggio. Dopo aver condotto per la manina gli accovacciati leader negli ultimi anni, sembra voler smettere i panni, in tessuto organico ovviamente, di paladina del pianeta. Sconvolgente.

Per fortuna ci pensano alcuni suoi epigoni, i Just Stop Oil, a proseguire l’opera di sensibilizzazione imbrattando in tutto il mondo inestimabili opere d’arte custodite nei musei, dalla Gioconda di Leonardo ai Girasoli di Vincent van Gogh. Non è che rischiano, nonostante i capolavori siano protetti da vetri blindati, di farsi detestare persino dai più bendisposti? Macché. Fridays for Future, il movimento gemello fondato appunto da Greta, anzi rilancia: «Ma chi sono i veri criminali? Chi lancia della zuppa su un quadro senza nemmeno intaccarlo o chi causa la morte di otto milioni di persone all’anno con l’inquinamento da combustibili fossili?». Argomentare faticoso, ma incontrovertibile.

Come quello degli attivisti che continuano a bloccare le tangenziali. Si sdraiano sul selciato. Cercano di ostruire il passaggio ai folli avvelenatori che, a bordo delle loro automobili, vorrebbero soltanto andare a lavorare. Srotolano gli striscioni e urlano i loro slogan: «No gas. No carbone. No petrolio». Solo Tesla super accessoriate, per carità.

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