Non erano volontari e men che meno militari delle famigerate SS. Altro che battaglione armato fino ai denti, come ha sostenuto il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo, giustificando l’eccidio e chiedendo le dimissioni del Presidente del Senato Ignazio la Russa. Però nessuno ne parla.
No, non era una banda musicale di semi pensionati, come ha sostenuto il presidente del Senato. Ma anche se i soldati uccisi quasi ottant’anni fa nell’attentato di via Rasella non erano anziani suonatori, nella sostanza Ignazio La Russa ha ragione. Quelli morti erano in gran parte contadini del Sud Tirolo, arruolati a forza tra la fine del 1943 e l’inizio del ’44. Non erano volontari e men che meno erano militari delle famigerate SS. Altro che battaglione armato fino ai denti, come ha sostenuto il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo, giustificando l’eccidio e chiedendo le dimissioni della seconda carica dello Stato. Per rendersene conto basta leggere il volume Attentato e rappresaglia, scritto più di vent’anni fa da Alberto Benzoni, vicesindaco di Roma nella giunta del comunista Giulio Carlo Argan. «Erano riservisti, persone che per età (in media 35 anni), professione, scarsa attitudine militare o per il fatto che da sudtirolesi avevano optato per l’Italia, non erano state mandate al fronte. Il Bozen non aveva nulla a che fare, né formalmente né sostanzialmente, con le SS, tanto da essere esonerato da qualsiasi inchiesta da parte alleata all’indomani del conflitto (inchiesta cui erano automaticamente sottoposte tutte le formazioni considerate, in linea di principio, criminali, in quanto richiamavano direttamente all’ideologia nazista)». Del resto, fu lo stesso Rosario Bentivegna, uno dei gappisti che mise la bomba con cui furono uccisi i 33 soldati, a spiegare che per quanto lo riguardava e ai fini della strategia del Pci, chi fossero e che cosa facessero quei militari, era del tutto ininfluente. Davanti ai giudici del tribunale militare che processavano Herbert Kappler per la strage delle Ardeatine, alla domanda se i partigiani sapessero che la colonna di soldati era formata da elementi della polizia di sicurezza, Bentivegna rispose: «Erano tedeschi e per me questo bastava!».
Erano nazisti? Scrive lo storico Lorenzo Baratter nel suo Le Dolomiti del Terzo Reich, uscito nel 2005: «I caduti di via Rasella, come la maggioranza degli arruolati dell’Alpenvorland (la zona del Trentino-Alto Adige sottoposta all’amministrazione militare tedesca, ndr) erano contadini, artigiani, pastori e mugnai: molti provenivano dalla montagna, dove non lasciarono certo volentieri masi, figli, famiglia e lavoro». Un giorno ricevettero una cartolina che intimava di presentarsi al commissariato supremo. E per descrivere la chiamata al servizio di guerra, parla di un vero e proprio rastrellamento di sudtirolesi nelle vallate, cui era difficile sottrarsi pena finire in campo di concentramento o esporre la propria famiglia a rappresaglie.
Rintracciando documenti dell’epoca e testimonianze dirette, Baratter ha anche smontato la tesi secondo cui il battaglione Bozen, vittima dell’attentato, avesse partecipato ai rastrellamenti che ebbero luogo a Roma durante l’inverno del 1943 e l’inizio del ’44. All’epoca dei fatti gli uomini del Bozen si trovavano a mille chilometri dalla capitale e stavano iniziando l’addestramento nella caserma di Gries, in quanto appena arruolati. Con la ferocia nazifascista quei trentenni altoatesini, dunque, non avevano nulla da spartire. Anzi, loro stessi ne erano vittime. «Gli uomini del Bozen appartenevano a una popolazione che due regimi totalitari avevano fatto bersaglio di umiliazioni, violenze e repressioni», scrive Baratter a proposito della condizione del Sud Tirolo italianizzato e poi sottomesso alla Germania. «Vent’anni di vessazioni in completa solitudine, senza che alcuna voce significativa, se si escludono rare eccezioni, si fosse mai levata dentro il movimento antifascista. Ecco perché è importante comprendere chi erano i “nazisti” uccisi a via Rasella: persone che avevano subito dal fascismo e dal nazismo ciò che i giovani partigiani romani non potevano sapere». Lo storico trentino rintracciò alcuni dei sopravvissuti all’attentato e tra questi un contadino della Val Pusteria, Lois Rauter, a cui i tedeschi avevano sottratto due figli con problemi psichici (li eliminarono in campo di concentramento, dopo averli sottoposti a ogni genere di esperimenti) e che a causa della bomba in via Rasella perse un braccio. Peter Putzer di Varna, al momento dell’arruolamento aveva quarant’anni e quattro figli: l’ultimo fucile lo aveva imbracciato vent’anni prima, da artigliere di montagna nell’esercito italiano.
Ha scritto il giornalista Umberto Gandini, che a lungo indagò sul Bozen e ne parlò sull’Alto Adige, il quotidiano per cui lavorava: «Si può dire tranquillamente che quel giorno di marzo, in via Rasella, morirono i soldati tedeschi meno tedeschi di tutti quelli che imperversavano in quegli anni in Europa; e i soldati tedeschi che meno di tutti “meritavano” quella fine, perché non avevano fatto assolutamente niente di male e non erano stati nemmeno messi nella condizione di poter fare del male». Forse per questo, Alberto Benzoni, che certo non può essere sospettato di simpatie verso nazisti e fascisti, dopo aver citato lo storico inglese Raleigh Trevelyan secondo cui l’attentato si prefiggeva di istigare i tedeschi alla rappresaglia, nel suo libro chiede un fiore per i riservisti del Bozen. «Per la sorte che hanno subito, del tutto inconsapevoli, e per la condanna persecutoria, del tutto strumentale, di cui sono stati oggetto da morti». Dopo aver invitato a un esame critico degno di questo nome su ciò che accadde in via Rasella, sostenendo che «da più di cinquant’anni (il libro è del 1999, ndr) assistiamo a una straordinaria autocensura», Benzoni a proposito delle vittime del Bozen scrive: «Strano destino il loro: si aprono le porte della comprensione collettiva ai giovani di Salò, e perfino agli esponenti della XMas; mentre l’Italia rifiuta anche un segno di ricordo ai contadini sudtirolesi che non erano mai stati volontari in nessun tipo di esercito e in nessun tipo di guerra».
No, La Russa ha torto: quelli del Bozen non erano musicisti prossimi alla pensione. Erano soldati arruolati a forza, che, come disse Gandini in un’intervista in tv, «quando arrivarono a Roma non avevano ancora sparato una fucilata». È vero, cantavano a squarciagola, «come tanti galli e con il petto in fuori». Ma chi si rifiutava doveva mettere in conto una punizione esemplare.
Forse, visto che si avvicina il 25 aprile, sarebbe ora di ricordarlo e di smontare una bugia che ancora oggi, dopo quasi ottant’anni, si continua a ripetere. Per calcolo e per cinismo, quasi che ammettere chi fossero quei soldati giustifichi quello che è venuto dopo. No, nessuna strage può mai essere giustificata e quella delle Ardeatine in particolare. Anche se, come scrive Trevelyan, scopo dei gappisti che misero la bomba contro il Bozen era «istigare i tedeschi alla rappresaglia, sì da stimolare all’azione l’indolente popolazione romana». Benzoni, che a supporto cita una lettera di Giorgio Amendola, concorda, spiegando la strategia degli attentatori e del Pci: «Si trattava di colpire sempre più duramente i tedeschi sino obbligarli a reagire. Da questo sarebbe nato quel clima preinsurrezionale “spontaneo”, destinato ad interagire con la liberazione della città». In altre parole, scrive Benzoni, la rappresaglia non solo era prevista, ma invece di essere considerata un costo era ritenuta un beneficio: «Un beneficio politico, direttamente proporzionale a un costo umano». Ma di tutto ciò nelle celebrazioni del 25 aprile nessuno parlerà.
