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Perché gli Stati Uniti vogliono ancora Trump

Perché gli Stati Uniti vogliono ancora Trump

L’editoriale del direttore

Dopo anni di politicamente corretto, gli elettori vogliono discorsi diretti e non più accomodanti. Soprattutto, non ne possono più di sentirsi sotto esame e colpevoli per qualche cosa che ritengono di non aver fatto


Donald Trump è politicamente scorretto. I suoi detrattori ne descrivono spesso le bugie, criticando il modo in cui taglia la realtà con l’accetta, ribaltandola. Ma forse è proprio per quello che ai commentatori appaiono delle enormi grossolanità che agli americani piace. Dopo anni di politicamente corretto, gli elettori vogliono discorsi diretti e non più accomodanti. Soprattutto, non ne possono più di sentirsi sotto esame e colpevoli per qualche cosa che ritengono di non aver fatto. Si spiega così l’incredibile ciclone che sta terremotando quella che è considerata la più grande democrazia del mondo.

Dato per spacciato dopo i fatti di Capitol Hill, inseguito da numerose Procure con accuse che vanno dallo stupro alla sottrazione di documenti sulla sicurezza del Paese, dall’insurrezione al falso in bilancio, Trump è rimontato nei sondaggi fino a vincere le sfide elettorali con gli altri candidati repubblicani, ma soprattutto fino a scavalcare nelle intenzioni di voto Joe Biden e dunque a ipotecare un ritorno alla Casa Bianca. Come è possibile, si chiedono in tanti? È plausibile che gli elettori si siano fatti incantare da questo mezzo imbroglione? La risposta è semplice: Trump dice agli americani ciò che gli americani vogliono sentirsi dire. E non parlo solo dello slogan, MAGA, ovvero Make America Great Again, cioè far tornare l’America grande come prima, ma dei punti ritenuti sensibili dalla maggioranza dei cittadini, a partire dall’immigrazione per finire al politicamente corretto, che ormai è diventato un problema nella vita quotidiana.

Mi ha molto colpito nei giorni scorsi un’intervista apparsa sul Corriere della Sera a una ricercatrice italiana trapiantata negli Stati Uniti. La donna, protetta dall’anonimato, ha raccontato la follia «woke», ovvero gli effetti di quel movimento antirazzista e antifascista che sta condizionando il mondo universitario americano e non solo. A chiunque sia di razza bianca è chiesto di ammettere le proprie colpe per aver contribuito, consapevolmente e inconsapevolmente, a creare un sistema discriminatorio. Essere bianchi è già una colpa, perché dal movimento Black lives matter in poi, chiunque abbia un antenato della vecchia Europa è ritenuto un privilegiato e dunque razzista. L’intervistata dal Corriere ha raccontato episodi che aiutano a comprendere come l’ideologia «woke» stia minando alla radice il Paese che per anni ha incarnato la libertà di espressione.

Parlare di campo, in senso medico o professionale, non è possibile se si ha davanti una persona di colore o un messicano, perché significherebbe ricordarle che i suoi antenati hanno lavorato nelle piantagioni di cotone o come campesinos. Fare dunque qualche cosa che possa anche solo lontanamente apparire discriminatorio, comporta il doversi scusare mille volte ed essere costretti a partecipare ad autentiche sedute di rieducazione dove si devono ammettere i propri errori. Il fenomeno è talmente assurdo che ormai una persona di razza bianca non può guidare un servizio di assistenza verso i neri perché anche questo, al di là dei meriti, appare discriminatorio. La società americana sta precipitando verso una deriva illiberale, dove dall’università al mondo del lavoro, si rischia di essere banditi non soltanto per le proprie opinioni, ma anche solo per non aver espresso ciò che la cultura «woke» vuole. Tutto è giudicato in base al metro della discriminazione. Persino la criminalità. Offendendo qualcuno si rischia di finire a processo, anche se quel qualcuno stava magari commettendo qualche cosa di illecito o inopportuno. Vi sembra una pazzia? Anche a me. Ma se questa è la realtà con cui in America si è costretti a fare i conti, forse si capiscono gli elettori che votano Trump.

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