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Il «folle volo» di Manfredini nella Divina Commedia

Il «folle volo» di Manfredini nella Divina Commedia

A Ferrara, in occasione del VII centenario di Dante, si riscopre un artista dimenticato. È protagonista di una potente parabola creativa, consumata in una vita breve e drammatica.


Il 31 maggio 1907 moriva, in un letto di contenzione nel manicomio lombardo di Mombello, il pittore ferrarese Manfredo Manfredini. In attesa di dedicargli una sezione nel Museo della follia, che si aprirà in Palazzo dei Diamanti nel 2022, s’inaugura questa mostra, sulla sua opera principale: le 66 illustrazioni per la Divina Commedia, edita a Firenze nel 1907. L’editore Giuseppe Nerbini la volle stampare in concorrenza con la sontuosa e raffinata edizione Alinari del 1902-1903, illustrata da Gustave Doré, dandole un taglio più semplice e divulgativo, e affidando a Manfredini, di coltivata cultura umanistica, anche l’utile commento riassuntivo dei Canti.

Rimasto incompiuta la serie di illustrazioni per l’improvvisa scomparsa dell’artista ferrarese, Nerbini la fece portare a compimento da Tancredi Scarpelli, al quale alcuni studiosi riferiscono erroneamente l’intera opera. Il padre di Manfredini, Odoardo, era impiegato, la madre Maria Barbi Cinti apparteneva a una colta famiglia di Ferrara. Era infatti figlia di Francesco, funzionario comunale, docente ed erudito, e nipote di Giovanni. Nel 1891, subito dopo la morte di Francesco Barbi Cinti, la famiglia Manfredini decise di trasferirsi ad Ancona. Odoardo in seguito divenne ispettore demaniale a Urbino. Manfredo fu avviato dai genitori a studi di carattere umanistico (ginnasio e liceo classico); tuttavia già durante l’adolescenza aveva iniziato a disegnare e usava illustrare i suoi componimenti letterari.

Presso la tipografia Rocchetti nella città marchigiana, nel 1904 pubblicò il saggio La psiche riflesso dell’ambiente, una ventina di pagine dense di spunti filosofici, storici e letterari. Si trasferì quindi a Firenze, città in cui verosimilmente frequentò i corsi liberi della Scuola di nudo presso l’Accademia di belle arti. Secondo la testimonianza del fratello Mario, dipinse numerosi ritratti e autoritratti, paesaggi e composizioni oniriche, non sempre completate. Dall’editore Giuseppe Nerbini ebbe l’incarico di illustrare una edizione a fascicoli settimanali della Divina Commedia e di commentarne appunto i Cento canti, riassumendone appunto il contenuto.

L’intenzione di Nerbini era realizzare un’opera popolare e accessibile a tutti, quasi in antitesi alla più sontuosa edizione coeva pubblicata dai fratelli Alinari. Le illustrazioni di Manfredini si presentavano singolarmente moderne e molto diverse sia da quelle simboliste degli Alinari sia da quelle più famose di Gustave Doré, considerato da tutti il fondatore dell’immaginario visivo del testo dantesco.

Nel corso dell’esecuzione febbrile ed eccitata di questa faticosa opera, Manfredini conobbe la cantante lirica ucraina Solomiya Krushelnytska che era arrivata in Italia grazie a Giacomo Puccini, del quale aveva portato al successo la Madama Butterfly. L’artista ferrarese si invaghì perdutamente del soprano, ma non fu corrisposto: la singolare infatuazione (unilaterale, secondo la cantante) iniziò in un teatro di Napoli e durò nel corso degli anni a Ravenna, Torino, Milano e Viareggio, per le opere alle quali Manfredini non mancava mai di assistere.

La vita inquieta, caratterizzata da colpi di testa, carteggi sconclusionati, arresti e fogli di via, si concluse drammaticamente nell’aprile 1907 a Milano, dove la cantante doveva esibirsi al Teatro alla Scala nella prima assoluta della Gloria di Francesco Cilea, diretta da Arturo Toscanini. Manfredini, che seguiva la cantante in modo ossessivo nei suoi spostamenti, tentò di avvicinarla al Grand Hotel et de Milan dove lei era scesa.

Entrato, in preda all’esaltazione, nell’albergo, fu bloccato da alcuni inservienti dopo una colluttazione. Gli furono trovati addosso un coltello, una rivoltella carica e un flacone di vetriolo; arrestato dalle forze dell’ordine, fu dapprima inviato in carcere ma, subito giudicato dai medici insano di mente, venne internato nel manicomio di Mombello in Brianza, allora Ospedale psichiatrico provinciale di Milano. Dopo un’agonia durata 40 giorni, Manfredini morì, ufficialmente, per una grave forma di tubercolosi polmonare.

Le illustrazioni per la Divina Commedia rimasero incompiute, arrestandosi al XIII canto del Purgatorio, ma alcuni intendenti, come lo scultore romano Ernesto Biondi, le avevano giudicate sorprendenti. Nerbini decise quindi di affidare le restanti tavole illustrative al napoletano Scarpelli. La pubblicazione incontrò un buon successo, tanto che nello scorso secolo se ne conoscono una decina di riedizioni con varianti, ultima delle quali stampata nel 1961. Alcuni critici hanno erroneamente riferito l’intero apparato illustrativo a Scarpelli, ignorando del tutto le tavole di Manfredini; di queste ne restano comunque 66, giudicate in modo positivo anche da studiosi anglosassoni che ne hanno di recente rivalutato la qualità espressiva.

Manfredini, abbiamo detto, era di famiglia della colta borghesia, nipote per parte materna di Francesco Barbi Cinti, autore del primo catalogo della Pinacoteca Comunale di Ferrara (1855) e proprietario, con i fratelli, di circa 600 dipinti antichi, che costituivano una formidabile collezione, la più importante dopo quella di Giovanni Battista Costabili.

Nelle sue creazioni Manfredini mostra curiosi motivi proto-espressionisti e presurrealisti, di singolare modernità, al di là di alcune ingenuità formali. Conosciuta la soprano Krushelnytska, che viveva nella Viareggio, orientale e liberty, di Giacomo Puccini e Galileo Chini, l’artista ferrarese se ne invaghì, perdendo il senno, come l’Orlando ariostesco, per il sentimento non corrisposto. Le cronache delle gazzette raccontano le sue azioni violente e teatrali per attirare le attenzioni della cantante: nel frattempo continuava a illustrare l’Inferno, ritraendosi bello e dannato, come un Lucifero dal corpo apollineo e innocente, mentre Solomiy era una Beatrice altera, tutt’altro che angelicata.

L’identificazione non era casuale: vi si riconosce la dialettica fra amore e febbrile inquietudine, la ricerca di una emozione fondata sulla sensibilità prima d’uomo che d’artista, anche nell’incerto equilibrio, ma di indubbio valore estetico. La sua rappresentazione dell’Oltretomba e della dannazione eterna è affine a quella di Alberto Martini e di Raoul Dal Molin Ferenzona, ma anche dell’allucinato conterraneo Pier Augusto Tagliaferri, con onirici disegni estranei ai decorativismi preraffaelliti o floreali.

La vicenda esistenziale di Manfredini, morto ad appena 25 anni, finì tragicamente, condannandolo all’oblio; ma averne recuperato la invenzioni, in questo VII centenario dalla morte di Dante, da parte dell’insaziabile Lucio Scardino, è come aver ritrovato una pagina che era stata strappata, nella storia dei simbolisti ferraresi e dell’illustrazione moderna della Commedia. Nel contempo, il catalogo inserisce l’artista in un percorso iconografico dantesco propriamente ferrarese: il Poeta evoca personaggi storici come Obizzo d’Este o richiama miti locali come Fetonte, ma soprattutto ricorda il trisavolo Cacciaguida, che aveva sposato una «donna di Val di Pado», della casata cittadina degli Aldighieri, come ci piace credere.

Alla vicenda della leggendaria e scenografica Cripta degli Aldighieri, riproposta per le celebrazioni dantesche del 1921 in Santa Maria Nuova, soprattutto grazie all’impegno grafico-ricostruttivo di Gualtiero Medri, futuro direttore dei Musei civici della città estense, è dedicato un opportuno capitolo.

Altrettanto si è fatto per i numerosi artisti ferraresi, da Gaetano Previati a Giuseppe Mentessi, da Cesare Laurenti a Adolfo Magrini, i quali hanno illustrato il Poema negli stessi anni del più fragile, ma non meno impressionante, Manfredini. Tra i più celebri artisti dell’epoca è anche Giovanni Boldini, al quale è stato dedicato a Ferrara un museo monografico quasi ottant’anni anni fa.
Da questa ricchissima raccolta pubblica provengono le opere esposte in Dal disegno al dipinto, piccola quanto sofisticata rassegna organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte, in questo stesso 2021, anno in cui si è celebrato il novantesimo anniversario della scomparsa di Boldini a Parigi.

Boldini, a sua volta, è l’unico grande ferrarese a non essersi misurato con la Divina Commedia: da testimonianze fondate sappiamo che, in punto di morte, chiese più volte alla moglie Milly di recitargli la preghiera di Bernardo alla Vergine del 33° canto del Paradiso, certamente letta nella sua giovinezza a Ferrara. Furono, i versi danteschi, le ultime umane parole che il pittore volle ascoltare, prima di salire – e risentirle – in cielo.

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