- Lockdown\1 Viaggio nel mondo dei proprietari di palestre, bar e ristoranti che si ribellano (civilmente) ai Dcpm del governo rimanendo aperti nonostante tutto. O almeno, ci provano.
- Lockdown\2 Il piatto piange. L’agroalimentare italiano con il nuovo stop rischia di perdere fino a 10 miliardi di euro in un solo mese
- Lockdown\3 Il costo di un nuovo stop totale? 270 mila imprese che chiudono
Dietro al bancone, bottiglie di liquore e una sfilza di coppe d’argento. Accanto, una stanza per ritrovarsi a giocare a carte e bere un aperitivo. Questo bar a Ramacca, cittadina immersa nel cuore verde del Calatino siciliano, vicino a Caltagirone, è come tanti in Italia, ma il suo proprietario è recentemente balzato agli onori delle cronache. Paolo D’Amato ha partecipato a una manifestazione a Catania contro i Dpcm che obbligano a chiudere i locali alle 18, e, altoparlante in mano, ha annunciato tra gli applausi della folla: «Il mio bar resta aperto». E così è: ufficialmente aperto per asporto. «Per ora nessun cliente vuole fermarsi e rischiare un verbale, ma io non ho problemi, se si siedono li servo» dice a Panorama. «La mia è una piccola realtà come tante che tirano a campare, ma con questo governo non si sa come arriveremo a dicembre. Ditemi voi che Natale sarà».
È dal 1550, ovvero dall’uscita del Discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie, che si filosofeggia su quanto l’uomo libero possa rifiutarsi di obbedire a norme contrarie alle sue convinzioni. Ma nella nostra storia recente non si ricorda un tal numero di italiani pronunciare spontaneamente la parola «disobbedienza». Niente a che fare, beninteso, con i saccheggi e le molotov viste nelle città trasformate in campi di battaglia. Contro i Dpcm del governo Conte c’è un’Italia laboriosa che esprime dissenso sia in manifestazioni pacifiche (salvo infiltrazioni) sia dichiarando la scelta di tenere aperto affrontandone le conseguenze. Ovvero sanzioni economiche da 400 a tremila euro (in caso di recidiva raddoppiano) e chiusura da cinque a 30 giorni. Ma nei casi più tenaci si arriva al penale con l’arresto fino a tre mesi.
Ciononostante, in molti rischiano, insistono, non mollano. Le sanzioni sono decine al giorno ma centinaia di imprenditori, da Nord a Sud, vogliono forzare il coprifuoco. A volte rimangono semplici proclami, come quel «Da domani tutti aperti, zio bonino!» gridato nel megafono in piazza a Cesenatico, in altri casi si traducono in atti concreti. Come a Pesaro, dove ha fatto rumore la protesta di Umberto Carriera, imprenditore del food riconosciuto tra i 150 under30 più promettenti secondo Forbes. Ha invitato tutti a disobbedire cenando da lui, nel locale La Macelleria, la sera dell’entrata in vigore del Dcpm. Hanno mangiato in 90, poi è arrivata la polizia: 400 euro di multa e cinque giorni di chiusura. Ma Carriera non si dà per vinto: «Ho sei ristoranti: ne aprirò un giorno uno, un giorno l’altro, per protesta» annuncia al telefono. «Che cosa significa stabilire che il virus si trasmette soltanto dopo le 18? È a cena che i ristoranti incassano». E i soldi che il presidente del Consiglio ha promesso? «Elemosina, ho 42 dipendenti e una montagna di conti».
A Bologna, abbiamo chiamato il bistrot Bonaccorsi alle 22.30 trovandolo aperto. Il proprietario Giorgio Perna l’aveva dichiarato che sarebbe andato avanti a testa bassa. Ha già collezionato un po’ di multe ma dice di non temere nulla: «Aprirò tutti i giorni, quel che succede succede. Se non si lavora non si guadagna e non si vive. Forse il governo ha deciso che il popolo deve morire di fame, a quel punto meglio morire di Covid. La cosa bella è che in zona c’è sempre più gente che apre, mi fa piacere». Le forze dell’ordine hanno la mano leggera? «Sono popolo come noi, anche loro hanno perso la libertà».
Saltano gli schemi. A Trieste il sindaco Roberto Dipiazza ha definito «anticostituzionali» i decreti del governo, mentre la nuova parola d’ordine della sinistra sempre più lontana dalle strade è «legalità», tanto che sempre in Friuli una figura di spicco del Pd, Debora Serracchiani, ha accusato il governatore Massimiliano Fedriga e amministratori vari di appoggiare chi protesta («No alla disobbedienza con addosso il tricolore»), mentre in Sicilia la segreteria nazionale piddina vuole denunciare il sindaco di Messina Cateno De Luca, schieratissimo con le categorie più in difficoltà, perché «incitare la cittadinanza a disattendere un’ordinanza sull’ordine pubblico è un gesto irresponsabile e un reato».
E siccome ormai vale tutto, ricordiamo la notizia di quelle associazioni di sport dilettantistico di Reggio Calabria, riunite in un Comitato spontaneo, che hanno scritto direttamente a Conte una lettera aperta annunciando di non voler violare le regole, ma che «è nostra ferma intenzione riaprire le strutture». E poi: «Se costretti difenderemo i nostri diritti e il futuro dei nostri figli, anche da Lei».
L’ambito sportivo è in gravi difficoltà. Per questo Fabrizio Borghetti, titolare della palestra Alfazone Lab a Cesena, è diventato disobbediente. «Quando ho comunicato sui social che avrei tenuto aperto, il giorno dopo è arrivata la Digos: multa e chiusura per cinque giorni. Era quello che volevo» racconta. «Io sono un cittadino modello che lotta contro un’ingiustizia perché quel decreto è sbagliato. E non resistere alle ingiustizie non è etico. È un tacito assenso, è codardia».
«Tenete aperte le vostre attività! Disobbediamo alle chiusure forzate e alle restrizioni e avremo vinto noi» è stato l’appello rivolto ai titolari di ristoranti, bar, palestre, piscine e tutte le attività coinvolte dal Dpcm, dal Movimento imprese italiane, quello che pochi giorni fa ha cercato di bloccare Milano con la sua mobilitazione di protesta. «Non siamo ultras o black block» spiega il presidente Maurizio Pinto «non sfasciamo le vetrine dei colleghi e non neghiamo il virus, ma per Conte non abbiamo che ultimatum: deve ritirare i suoi Dcpm e lo stato di emergenza nazionale o fermeremo l’Italia. Il ristoro economico? Nessuno crede più al governo, c’è gente che ancora aspetta la cassa integrazione di aprile».
«Promettono soldi ma stanno solo cercando di tamponare una situazione sempre più incandescente: gli indennizzi non riusciranno a calmare la rabbia del popolo» commenta ancora Paolo D’Amato, il proprietario del bar raccontato all’inizio. «Se hanno intenzione di farci impiccare all’interno dei nostri locali, scenderemo in piazza e non si sa come andrà a finire. La disperazione è una brutta malattia. Ci si muore. Altro che Covid».
«C’è molta, troppa tensione nell’aria» analizza Chicca Coroneo, ristoratrice titolare del Bar Marini e della trattoria Quin a Crema, una delle prime a reagire contro il Dpcm evocando la disobbedienza civile. «Era una provocazione. Il punto è che la politica perde credibilità facendo pezzetti di provvedimenti contraddittori e assurdi, vietando le cene ma chiudendo gli occhi sui bus pieni, promettendo risorse che poi non si ottengono e offrendo motivazioni confuse. La confusione è pericolosa, sapete? Con più credibilità il governo l’avrebbe stemperata, e invece…».
Il piatto piange

L’agroalimentare italiano già penalizzato dal precedente lockdown, con il nuovo stop rischia di perdere fino a 10 miliardi di euro in un solo mese. E il decreto Ristori, con i suoi fondi limitati, lascia tutti scontenti. Per questo le categorie che dipendono dalla filiera made in Italy per eccellenza ora scendono in piazza.
di Carlo Cambi
Per i ristoranti e i bar il decreto Ristori equivale a un brodino, cioè una minestra riscaldata di pochissima sostanza, somministrata con un cucchiaio bucato. Il governo mette 5 miliardi di euro, di cui solo 2,4 a fondo perduto, per sostenere un settore che rischia di perdere in un solo mese 7 miliardi di fatturato, senza contare le ricadute enormi su tutta la filiera agroalimentare. Se si contano anche bar e pasticcerie la riduzione di orario fino al 24 novembre – e poi si vedrà – porta il conto delle perdite a oltre 10 miliardi.
Ebbene il ministro per lo Sviluppo economico Stefano Patuanelli, pentastellato, parla di un grande sforzo del governo. A conti fatti, visto che il contributo è spalmato su 460 mila imprese, significano 5.217 euro ad azienda, ma è una statistica alla Trilussa. Non vengono neppure ripagati i costi di messa a norma dei locali e, beffa delle beffe, il contributo rischia di arrivare sui conti correnti dei gestori lo stesso giorno, il 16 novembre, in cui si dovrà versare l’Iva e l’acconto Irpef.
Oltretutto il contributo è calcolato male: i ristoranti fanno il 70 per cento del loro fatturato con la cena e limitare l’orario alle 18 significa di fatto imporre loro la chiusura. Senza contare che sul bilancio di un ristorante i costi fissi incidono per oltre il 65 per cento indipendentemente dall’orario di apertura. La fantasia ha partorito le più diverse iniziative di protesta: dalla cena di gala alle 5 del mattino al Plip di Mestre – al tavolo per solidarietà c’era anche il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro – alla provocazione di Simone Iaulè, presidente degli albergatori maceratesi, che nel suo albergo offre la camera gratis a chi si ferma a cena. Mercoledì 4 novembre, anniversario dell’alluvione, dopo una marcia di 270 chilometri i ristoratori fiorentini si sono ritrovati sotto Palazzo Chigi per gridare al governo che, come allora, hanno l’acqua alla gola. Solo che nel 1966 ci fu un’immensa gara di solidarietà per salvare la culla del Rinascimento, oggi il capoluogo toscano affonda nel gorgo di un vuoto irreale. Chiude anche lo storico ristorante Il Latini che sta lì da più di cento anni ed è stato il focolare di tutta la cultura del Novecento: pane, vino e libri si degustavano in via dei Palchetti. Saracinesca abbassata, forse per sempre.
Come sono abbassate alle 18 quelle di oltre 300 mila locali italiani. Di questi non arriveranno a fine mese neppure la metà. La Fipe Confcommercio è stata lapidaria: per 50 mila impese la fine è già arrivata, altre centomila non riapriranno. Sono 80 miliardi di Pil e un milione di posti di lavoro a rischio. «O ci sono interventi economici seri e immediati o la ristorazione è morta», avverte il direttore generale di Fipe Confcommercio Roberto Calugi.
Ristoranti, bar, pasticcerie sono il terminale di filiere agricole e agroalimentari integrate: da questi comparti l’Italia ricava un quinto del Pil. Fermare l’ultimo miglio di un prosciutto, di una bottiglia di vino, di un cartone di latte, degli spinaci, del pesce, dell’extravergine o delle uova significa togliere al comparto agroalimentare oltre il 30 per cento del fatturato. Federalimentare ha fatto un conto previsionale: se chiude di nuovo l’horeca (cioè alberghi, ristoranti e catering) se ne vanno almeno 50 miliardi da qui a fine anno. Il danno di un solo mese è pari a 12 miliardi. Agroalimentare corrisponde a 7 mila imprese, 400 mila posti di lavoro, 40 miliardi dall’export e 140 miliardi di fatturato complessivo.
Sembra che fermare un ristorante sia semplicemente far mangiare a casa le famiglie italiane. Significa invece affamare il settore più dinamico della nostra economia. Luigi Scordamaglia, presidente di Assocarni e consigliere di Filiera Italia, è lapidario: «Non si capisce perché i ristoranti, i bar, le pasticcerie che hanno investito e seguito alla lettera le regole imposte per riaprire dopo il lockdown debbano chiudere. Così si uccide la filiera agroalimentare». Sono state più di 400 le proteste in tutta Italia e il decreto Ristori è stato accolto quasi come una beffa.
Stando a uno studio di Coldiretti, i nuovi orari inducono i gestori a gettare la spugna. Hanno perso il 60 per cento dei clienti nel complesso, per i ristoranti delle zone rurali la quota sale all’80, ma la platea di chi consuma si era già praticamente dimezzata, soprattutto nelle grandi città e nei centri storici, complici il lavoro in remoto e la «sindrome» da virus cinese.
Del resto l’intento dichiarato da Silvio Brusaferro, direttore dell’Istituto superiore di Sanità, che ha ispirato l’ultimo Dpcm di Giuseppe Conte, è proprio quello: ridurre le occasioni di mobilità. Francesco Cerea, proprietario del tristellato Da Vittorio a Brusaporto, è drastico: «L’orario non fa paura al virus, si stanno facendo cose fuori da ogni logica. Così si uccide la ristorazione di qualità e stiamo ancora aspettando la cassa integrazione di marzo per i nostri dipendenti. Gli aiuti? Sono scettico».
Gli fa eco Gianfranco Vissani, star della cucina e ormai da mesi alla testa della protesta dei ristoranti: «Non so cosa vogliono ancora. Io qui a Baschi ho istallato addirittura dei sanificatori che vengono dalla Nasa. Non possono obbligarci ad andare a cena alle sei di pomeriggio. Faccio un appello a Sergio Mattarella: presidente sappia che la ristorazione è stata uccisa. Quanto agli aiuti non abbiamo visto un euro e ricordatevi che se per caso un’azienda ha una piccola pendenza fiscale viene esclusa».
Ma ora i timori più accentuati sono per l’effetto domino che le restrizioni producono. A farsene portavoce sono le organizzazioni vinicole. Dice Sandro Boscaini, presidente di Federvini: «Siamo i primi a sostenere che va salvaguardata la salute, ma siamo molto preoccupati: i locali pubblici sono il luogo di elezione di consumo dei nostri vini, uno dei vanti del made in Italy».
L’Unione italiana vini ha fatto i conti e Paolo Castelletti nota: «Complice il nuovo lockdown serale, nel 2020 il vino italiano di qualità perderà il 30 per cento delle vendite nell’horeca nazionale: se ci mettiamo anche lo stop ai banchetti, alle feste stimiamo che le perdite saranno superiori a 1,2 miliardi». Fosche previsioni fa anche un produttore che ha negli spumanti dell’Oltrepò pavese la sua punta di diamante, Pierangelo Boatti. «La situazione è pesante, noi che vendiamo vini di pregio qui a Monsupello, legati sovente a eventi, con la chiusura dei ristoranti temiamo cali di fatturato ai limiti della sostenibilità. È vero che c’è l’online, ma non basta. Per noi il canale horeca è vitale».
La ministra dell’Agricoltura Teresa Bellanova, peraltro contrarissima al Dpcm che ha chiuso i ristoranti, aveva promesso un sostegno da 600 milioni di euro per chi comprava made in Italy, e altri 100 milioni sono stati promessi ora. Ma non si è visto nessun effetto. Sono preoccupate le centrali agricole. Secondo Ettore Prandini di Coldiretti, «perderemo in un mese oltre un miliardo di fatturato agricolo». Dalla Cia, Dino Scanavino fa sapere che «questi orari decretano la morte dell’agriturismo, se ne vanno in fumo 600 milioni di fatturato in campagna».
Ci sono intere filiere come quella del latte o della pesca che temono il tracollo. Il presidente di Fedarlimentare Ivano Vacondio è chiarissimo: «La produzione viaggia a meno 5 per cento, i consumi ristagnano, per noi l’horeca vale oltre il 30 per cento del fatturato. A questo si somma una frenata dell’export. Il mondo dei consumi alimentari è troppo importante per impatto economico e occupazionale. Non può uscire amputato dalla pandemia».
E tutta questa filiera che è fatta di grandi aziende come Marr (1,7 miliardi di fatturato) e Selecta (1,3 miliardi), di aziende iper specializzate e di altissima qualità come Jolanda de Colò (patè e salumi d’oca), Coda nera (il miglior salmone), Skalo (tra i più importanti grossisti di pesce), di gioielli della distillazione come Ab Selezione e di migliaia di agenti di commercio è senza copertura. Sembra di sentire García Lorca che ripete: «Una bara con le ruote è il letto alle cinque della sera, ah che terribili le cinque della sera».
Il costo di un nuovo lockdown? 270 mila imprese che chiudono

Dal commercio al turismo all’edilizia. Gli artigiani e le piccole e medie aziende danno lavoro al 65 per cento degli italiani. E ora questa «macchina da guerra» perde colpi e il 10 per cento delle società colpite potrebbe non alzare più la serranda nel 2021.
di Guido Fontanelli
Non sono stati in grado, nei quattro mesi di tregua che il Covid ci ha concesso, di potenziare il trasporto pubblico locale. Non sono stati in grado di organizzare la scuola con orari di lezione differenziati per evitare assembramenti all’entrata e all’uscita. Non sono stati in grado di far partire tutti i cantieri necessari per avere più posti letto ospedalieri. Non sono stati in grado di garantire una massiccia campagna di vaccinazioni anti-influenzali. Non sono stati in grado, a giugno, di prendere dieci influencer per spiegare ai giovani nelle località di vacanza perché si deve usare la mascherina. Essendo stati incapaci di fare tutto questo, ora colpiscono commercio, ristorazione e artigianato». È un pesantissimo j’accuse quello lanciato da Giorgio Felici, presidente della Confartigianato Piemonte e titolare di una tipografia che ha visto il suo fatturato calare in questi mesi del 55 per cento. Parole dure che esprimono il malessere di una categoria, quella delle piccole imprese, probabilmente la più colpita dalla crisi provocata dalla pandemia.
Gli artigiani e le piccole imprese rappresentano un universo di 4,4 milioni di aziende con 10,8 milioni di addetti, pari al 65 per cento degli occupati nelle aziende italiane. E ora sono in grande difficoltà. Nei primi 6 mesi di quest’anno le società artigiane sono diminuite di 4.446 unità e l’Associazione artigiani e piccole imprese Mestre Cgia avverte che «un nuovo lockdown generalizzato darebbe il colpo di grazia a un settore che da 11 anni a questa parte sta costantemente diminuendo di numero. Dal 2009, infatti, hanno chiuso definitivamente la serranda 185 mila aziende artigiane».
Mariano Bella, responsabile dell’ufficio studi della Confcommercio (700 mila associati), ha appena rifatto i conti dopo al ripresa dei contagi e il varo da parte del governo del Dpcm con i nuovi provvedimenti restrittivi: «La nostra previsione per il 2020 indicava un calo del 9,3 per cento del Pil e del 19,9 per cento dei consumi. Se i nuovi provvedimenti si protrarranno fino all’inizio di dicembre riteniamo che avremo un’ulteriore caduta dei consumi per 17 miliardi e il Pil potrebbe scendere su base annua del 10,3 per cento».
Una situazione che si rifletterà sul tessuto delle imprese provocando una strage: «Rispetto al 2019 stimiamo prudentemente una mortalità aggiuntiva di 270 mila aziende provocata dalla crisi del Covid. Si tratta del 10 per cento delle imprese dei settori più colpiti, cioè commercio, ristorazione, turismo, attività artistiche, sportive e di intrattenimento». In altre parole, un’azienda su dieci di questi settori rischia di sparire. Non stupisce quindi che il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli parli di «danni gravissimi alle imprese, danni insopportabili».
Anche il Censis è molto preoccupato: Francesco Maietta, responsabile dell’Area politiche sociali del centro di ricerche, ha dichiarato nel corso di un convegno organizzato con Confimprese: «I consumi valgono 1.100 miliardi di euro annui, pari circa al 60 per cento del Pil. A fine anno, in seguito alle restrizioni messe in atto a causa del Covid, avremo un calo di 229 miliardi di spesa. Il retail potrebbe perdere fino a 95 miliardi di euro di fatturato e 700 mila posti di lavoro».
Tra gli artigiani, sostiene da parte sua Felici della Confartigianato, chi soffrirà di più in questi mesi saranno in particolare gli alimentaristi (quelli che producono carne, dolci, formaggi), i pasticceri, chi fa ristorazione, chi allestisce stand, i grafici, i tipografi, i fotografi. Tutte attività che hanno avuto una riduzione media del fatturato del 60 per cento. Diana De Benedetti, titolare delle gelaterie Nivà di Torino (con locali anche a Lisbona e Cannes), sostiene di aver subìto un calo del giro d’affari di circa il 40 per cento e considera un nonsenso il nuovo lockdown dopo le 18 per un’attività come la sua, che ha preso tutte le misure necessarie per il distanziamento dei clienti.
«Siamo arrabbiati ed esasperati» aggiunge Felici «perché a fine maggio, per riaprire i locali, i nostri associati hanno adottato tutte le misure richieste per garantire la sicurezza dei clienti, riducendo il loro numero e lavorando sostanzialmente in pareggio o in perdita. Una pasticceria con due dipendenti e un angolo bar come minimo ha speso 5-6 mila euro per adeguarsi alle nuove norme anti-Covid. E ora, dopo questi sforzi, veniamo “premiati” con una chiusura ulteriore. Certo che perdiamo la pazienza! In Piemonte sono fallite quest’anno circa 400 imprese artigiane, meno di quanto ci aspettassimo, ma il problema è che ci sono molti “morti che camminano”, aziende che cercano di mantenere la continuità anche se di fatto sono già fallite».
Se si va avanti così, è la previsione di Felici, avremo un Natale amaro per molti imprenditori: «Tantissime aziende del comparto alimentare dovranno chiudere e non potranno beneficiare dell’impennata delle vendite delle feste che andrà invece a beneficio dei supermercati: come accadde la scorsa Pasqua, quando le pasticcerie stavano chiuse mentre si vendevano colombe e uova nei supermercati».
Il 48 per cento degli associati alla Confartigianato lavorano nell’edilizia e, in teoria, dovrebbero essere contenti per il superbonus riconosciuto a chi ristruttura gli edifici: «Assolutamente no» replica Felici. «Siamo in alto mare, il superbonus comporta una serie di adempimenti burocratici che per le piccole imprese non sono semplici: per rifare una facciata si parla di 45 documenti. E molti potenziali clienti, in attesa di chiarimenti, rimandano i lavori al prossimo anno».
A peggiorare lo scenario delle piccole e medie imprese c’è un aspetto poco raccontato che riguarda il credito. Come ricorda il segretario della Cgia Renato Mason «dal prossimo 1° gennaio, le banche italiane applicheranno le nuove regole europee sulla definizione di default. Queste novità stabiliscono modalità e criteri più restrittivi rispetto a quelli finora adottati. Altresì, è previsto che le banche definiscano inadempiente colui che presenta un arretrato consecutivo da oltre 90 giorni, il cui importo risulti superiore sia ai 100 euro sia all’1 per cento del totale delle esposizioni verso il gruppo bancario. Se dovesse superare entrambe le soglie, scatterà la segnalazione presso la Centrale rischi della Banca d’Italia che, automaticamente, bollinerà l’imprenditore come cattivo pagatore, impedendogli così di poter disporre per un determinato periodo di tempo dell’aiuto di qualsiasi istituto di credito. Una situazione che rischia di interessare tantissime partite Iva che tradizionalmente sono a corto di liquidità e con grosse difficoltà, soprattutto in questo momento, a rispettare i piani di rientro dei propri debiti bancari».
