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​Quei critici, geniali come artisti

​Quei critici, geniali come artisti

Da Bernard Berenson a Giovanni Testori, passando per Gabriele D’Annunzio, Roberto Longhi e ancora Cesare Brandi… Così la bellezza delle pagine di questi studiosi e scrittori riesce ad amplificare persino i capolavori assoluti.


La critica d’arte italiana, o la critica militante, nel Novecento si conferma un genere letterario, sul modello che da Giorgio Vasari a Filippo Baldinucci, a Giovanni Pietro Bellori, a Marco Boschini, ad Anton Maria Zanetti, a Luigi Lanzi, a Leopoldo Cicognara, arriva fino a Lionello Venturi. Ma l’esperienza sul campo di conoscitori come Giovanni Morelli, Giovanni Battista Cavalcaselle e l’americano Bernard Berenson, lungamente attivo in Italia, apre la strada al più magistrale e innovativo degli studiosi che rinnoverà gli schemi della critica d’arte, inaugurando una fortunata scuola di ricercatori e interpreti: Roberto Longhi.

Diversamente da Berenson, Longhi si muoveva a suo agio anche nell’arte contemporanea, sostenendo i futuristi e stroncando Giorgio De Chirico, ma la sua posizione fu determinante anche per l’affermazione del primo pittore italiano del secolo, Giorgio Morandi, e per la legittimazione di pittori realisti, e anacronisti, come Gregorio Sciltian.

Longhi coltivava la critica d’arte come genere letterario e ne ottenne il riconoscimento da filologi esigenti come Gianfranco Contini. Questa vocazione letteraria si ritrova parimenti in Cesare Brandi, storico d’arte e critico militante molto seguito, e in Francesco Arcangeli, la cui ricerca poetica si riflette nella scrittura d’arte. Tale inclinazione, affabulatoria e memorialistica, si riverbera anche nelle prove critiche, spesso evocative ed elzeviristiche, di altri allievi di Longhi, come Giuliano Briganti, Giovanni Testori, Federico Zeri e, con un percorso più autonomo, ma sempre fortemente narrativo, in Roberto Tassi.

Per converso, negli stessi anni importanti scrittori hanno la tentazione della critica d’arte come genere letterario, spesso configurandolo come un vero e proprio «genere». Esattamente contemporaneo di Berenson fu Gabriele D’Annunzio, che si muove in un continuo contatto-contagio con gli artisti antichi e soprattutto con i suoi contemporanei, del tutto sordo alle tentazioni del mondo francese e dell’impressionismo.

Bianca Tamassia Mazzarotto indagò, in un libro fondamentale di fine anni Quaranta (Le arti figurative nell’arte di Gabriele D’Annunzio), i rapporti del poeta con gli artisti del Rinascimento, in particolare i veneziani: Giorgione, Tiziano Vecellio, Tintoretto, Palma il vecchio (una cui opera dà il titolo al libro postumo La Violante dalla bella voce). Va ricordato che Gabriele D’Annunzio, nel 1906, dopo anni di oblio, fu il primo a intendere la furia creativa di Nicolò dell’Arca nel Compianto di Cristo morto in Santa Maria della Vita a Bologna, ben prima che Longhi inaugurasse i suoi studi sull’arte bolognese ed emiliana.

Sentite: «Intravidi nell’ombra non so che agitazione impetuosa di dolore. Piuttosto che intravedere, mi sembrò esser percosso da un vento di dolore, da un nembo di sciagura, da uno schianto di passione selvaggia…». Ancora: «Non dimenticherò mai quel Cristo. Era di terra? Era di carne incorrotta? Non sapevo di che sostanza fosse. (…) Infuriate dal dolore, dementate dal dolore erano le Marie. (…) Ascoltami. Tu puoi immaginare cosa sia l’urlo pietrificato? (…) Le Marie intorno sembrano infuriate dal dolore – Dolore furiale. Una verso il capo – a sinistra – tende la mano aperta come per non vedere il volto del cadavere e il grido e il pianto e il singulto contraggono il suo viso, corrugano la sua fronte, il suo mento, la sua gola. L’altra con le mani tessute insieme, con i cubiti in fuori, ammantata piange disperatamente. L’altra tiene le mani su le cosce col ventre in dentro e ulula». Come dare, altrimenti, parole e grida e dolore a quelle animate e agitate presenze? Si può dire di più? E sono le prime parole che escono da quelle forme, dette una volta per tutte. Parole originali, ovvero poesia.

La critica annaspa, inciampa; la poesia vola. Ma il contributo di D’Annunzio è fondamentale anche per il riconoscimento dei suoi contemporanei, per lo più attivi nelle sue dimore, in particolare al Vittoriale: Francesco Paolo Michetti, Costantino Barbella, Gaetano Previati, Mariano Fortuny, Adolfo Wildt, Vittorio Zecchin, Marius Pictor, Alfonso De Maria, Giulio Aristide Sartorio, Leonardo Bistolfi, Adolfo De Carolis, Arrigo Minerbi, Giacinto Bardetti, Renato Brozzi.

Parallela all’esperienza dannunziana, ma in chiave dandystica, è la cronaca mondana di Carlo Placci, viaggiatore di Italia «in automobile», prima che lo/la consacrasse il manifesto futurista. In equilibrio tra letteratura e critica d’arte si muove anche una personalità applicata alla semplificazione della scrittura, depurata dai compiacimenti dannunziani: Ugo Ojetti, che manifesta la sua sensibilità per l’arte antica e moderna sulla rivista Dedalo, che ospitò Bernard Berenson, Matteo Marangoni, Ranuccio Bianchi Bandinelli, Pietro Toesca, Lionello Venturi e Roberto Longhi.

D’altra parte, fin dall’inizio del secolo, riviste come La Voce e Lacerba furono palestre per le esperienze delle avanguardie cubiste e futuriste, ospitando testi di Guillaume Apollinaire e immagini di Pablo Picasso e Umberto Boccioni, con esercizi poetici, letterari e critici di Ardengo Soffici cui si deve, nel 1914, il primo saggio su Cubismo e Futurismo. In quel clima fertile si formano anche personalità come Giannotto Bastianelli ed Emilio Cecchi, e quest’ultimo si misura, con competenza, nel 1926 con la Pittura italiana dell’Ottocento, nel 1928 con i Trecentisti senesi, nel 1932 con Donatello.

Anche un pittore puro come Carlo Carrà si dedicò alla critica d’arte con il saggio su Giotto, stampato nel 1924 da Valori plastici, la stessa editrice che nel 1927 pubblicherà il volume su Piero Della Francesca di Roberto Longhi. Un altro intreccio. Infatti, fu Longhi ad avvicinare Carrà a Giotto. Si erano conosciuti per la recensione che Longhi fece, nel 1913, per La Voce, di una mostra futurista a Roma. Longhi aveva 22 anni, Carrà 32, l’artista era più anziano e più noto dello storico dell’arte e fu lui a incoraggiare inizialmente lo studioso. Prima che la critica d’arte contemporanea si facesse critica militante, alzando un muro rispetto al passato, tutti i più prestigiosi critici o studiosi di arte antica si occuparono anche di arte contemporanea, e la tradizione continuò, in anni recenti, con Giulio Carlo Argan, Cesare Brandi e Maurizio Calvesi.

Ma, dopo Arcangeli, il poeta della critica (e l’inventore del Sacro Monte di Varallo) fu Giovanni Testori. Fu lui, interprete primo del Seicento lombardo, a parlare, davanti alla pietà religiosa, tradotta nelle sacre rappresentazioni in pittura e scultura nelle cappelle, di Gran Teatro montano, in questi toni evocativi e popolari: «Non è certo far romanzo (…) immaginar Gaudenzio (…), girar per il borgo; forse verso sera, deposti gli attrezzi nella Cappella, (…) scendere, poco prima del crepuscolo, lungo il Sesia, quando le ombre cadono giù dalle cime dei monti sul fiume e sulla piana, e guardare il super parietem e immaginarsi, immaginare; sentirsi crescere in cuore l’idea di un teatro, là dove, fin lì, non erano che cappellette, e proprio con la forza con cui glielo chiedeva la voce del suo popolo, mentre qua e là, nei boschi del super parietem si accendevano le lanterne, e le donne, tenendosi stretti i figli, attraversavano per l’ultima volta, in quel giorno, le strade, già vinte dalla paura degli spiriti che la notte, di lì a poco, avrebbe cacciato dai monti per tutte le vie burgi Varalli; lui, il calmo, dolce, concreto Gaudenzio avvertire, senza nessuna vanagloria, d’essere al punto in cui tutta una tradizione antica e non mai espressa appieno, si fa forma vivente, immagine matura e, per l’appunto, teatro, in plastica e colori, sì che nella vicenda di una vita s’esprima come in uno spettacolo, la tenerezza d’ogni nascita e il dolore d’ogni morte». Ancora: poesia, non critica. Una forma originale di letteratura. Un genere letterario.

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