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La «sentenza» spuntata che prolunga la guerra

La «sentenza» spuntata che prolunga la guerra

L’editoriale del direttore

Che senso ha spiccare un mandato d’arresto internazionale per crimini di guerra nei confronti di Putin? Dal mio punto di vista, nessuno. Si tratta di una misura simbolica e come tale politica. Che di certo non fermerà il conflitto.


Faccio la premessa di rito, prima di rischiare di apparire filorusso: Putin è un criminale. Ma lo era anche prima della guerra. Lo era quando i suoi sicari andavano in giro per l’Europa a eliminare gli oppositori. Lo era quando lasciò che i suoi soldati e i suoi sodali ammazzassero impunemente persone inermi in Cecenia. Chiunque abbia letto il libro di Anna Politkovskaja dal titolo La Russia di Putin sa di che cosa parlo. Uscì un anno prima che la giornalista di Novaja Gazeta venisse assassinata da un commando nell’androne del palazzo in cui abitava. In quelle pagine, pubblicate in Italia da Adelphi, c’era già tutto ciò che con sorpresa i giornali hanno raccontato nell’ultimo anno. La ferocia, la corruzione, il disprezzo per la vita dei soldati e l’indifferenza di fronte alla strage di Beslan e all’eccidio del teatro Dubrovka. Tutto in meno di 300 pagine. Bastava leggerle per rendersi conto che Putin era ed è un criminale. Ma fino all’altro ieri, fino al giorno in cui i carri armati russi non hanno invaso l’Ucraina, nessuno lo ha considerato tale. I governi europei con lui stringevano affari, considerando il suo Paese più stabile delle dittature africane e dunque in grado di assicurare ciò che serviva a mantenere le loro economie, ossia il petrolio e il gas. Molti statisti gli stringevano la mano senza curarsi se fosse sporca di sangue, come ancora oggi le stringono ad altri autocrati che di certo non le hanno più pulite.

Dunque di che cosa parliamo quando diciamo che il tribunale penale dell’Aja lo ha messo sott’accusa per crimini di guerra, emettendo un mandato d’arresto internazionale? Del nulla, perché tutti sappiamo che difficilmente quell’ordine sarà eseguito. Per lo meno non sarà eseguito ora. Oh, sì certo, Putin non potrà viaggiare, non gli sarà consentito andare in America né atterrare in una capitale europea ed eviterà di partecipare agli incontri internazionali tipo G20. Ma non credo che il presidente russo fosse impaziente di imbarcarsi per Washington o per Londra. Da quando i suoi cannoni hanno iniziato a bombardare Kiev, Putin non si è mosso da casa, rimanendo nascosto in uno dei suoi tanti rifugi e forse mandando alcune delle sue controfigure in visite ufficiali. No, non penso che dopo aver scatenato una guerra devastante, l’uomo che ha messo a fuoco l’Ucraina pensasse di concedersi una vacanza a bordo di uno dei suoi lussuosi yacht come ho letto su qualche giornale quando la Corte penale ha emesso un ordine di carcerazione.

Qualcun altro ha scritto che ora Putin è ancora più isolato di prima. Talmente isolato che il giorno dopo il mandato d’arresto, lo zar russo non solo si è concesso una visita in Crimea a scopo propagandistico, ma ha ricevuto con tutti gli onori il presidente cinese Xi Jinping. Il quale dal canto suo non si è limitato a portare a Mosca un generico piano di pace, ma ha ribadito due cose, ovvero che la collaborazione con la Russia è primaria e insieme i due Paesi lavoreranno per un nuovo ordine mondiale. I commentatori di gran parte della stampa si sono affrettati a scrivere che in questo modo Putin si è messo nelle mani del suo omologo cinese, diventandone un vassallo. È probabile. Ma a me personalmente importa poco della Russia e se sia o meno diventata una provincia dell’impero di Pechino. Mi preoccupa invece che gli interessi di due Stati non democratici si siano saldati e il collante sia la voglia di rivincita contro l’Occidente. La Cina ha la tecnologia e grazie alla sua impressionante crescita economica tiene l’Europa per il bavero. La Russia è messa peggio dal punto di vista economico, ma dalla sua ha il gas e il petrolio che serve a Xi Jinping per far funzionare le proprie industrie. In più, sia Pechino che Mosca hanno vasti interessi in Africa, in Medioriente e anche in America Latina.

Di fronte a tutto ciò, che senso ha spiccare un mandato d’arresto internazionale per crimini di guerra? Dal mio punto di vista, nessuno. Si tratta di una misura simbolica e come tale politica. Condivido ciò che sostiene Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale la cui famiglia è di origine russa. Commentando la decisione del tribunale penale internazionale, il giurista di scuola piemontese ha osservato che la decisione della Corte dell’Aja è «dissennata», ovvero priva di senno, stolta: «Mi ricorda la favola di Fedro, della rana che invidiosa del bue si gonfia a dismisura fino a scoppiare. Qui a gonfiarsi sono i giudici, che pensano che l’aggressione russa possa essere contrastata con un’azione giudiziaria: si è perso il senso delle proporzioni». Ma l’osservazione di Zagrebelsky non si limita a considerare inutile il mandato di cattura, bensì lo ritiene sbagliato perché non otterrà di fermare la guerra, ma semmai di inasprirla: «Come si può arrivare a una pace se una delle due parti, ancorché si tratti di un invasore, sa che pende su di lui la minaccia di finire in carcere?».

Il senso è chiaro: Putin dovrà essere processato, ma quando le armi avranno taciuto. «La Corte penale internazionale» ha concluso Zagrebelsky «si è fatta strumento, intenzionalmente o inavvertitamente, d’una mossa a favore dell’inasprimento del conflitto». Non so se l’ex giudice costituzionale abbia ragione. Mi auguro di no. Di certo, il mandato di cattura più che una misura giudiziaria pare una scelta politica. Proprio nel momento in cui ci sarebbe bisogno di una misura diplomatica.

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