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Corsi e ricorsi storici: c’è sempre un buon pretesto per attaccare

Corsi e ricorsi storici: c’è sempre un buon pretesto per attaccare

Prima di Vladimir Putin, che per difendere una minoranze invade l’Ucraina: ecco Adolf Hitler che si prende la Polonia o Benito Mussolini che, in soccorso di connazionali, entra in Grecia.


I ricorsi della storia. Vladimir Putin che entra nel Donbass con la pretesa di difendere una minoranza russa, sottoposta ad angherie, non è nemmeno una novità nel panorama delle aggressioni che, per giustificare un abuso, hanno necessità di costruire un pretesto. È che, poi, i presunti protettori di popolazioni maltrattate si fanno prendere la mano e non si fermano al primo obiettivo.

Che al novello Putin servisse solo una giustificazione per lanciare i carri armati oltre la frontiera è dimostrato dal fatto che l’invasione non si limita al Donbass ma arriva a Kiev dove di russi maltrattati non ce ne sono. Non diversamente Adolf Hitler avviò i presupposti della Seconda guerra mondiale.

La Germania nazista, dopo aver esteso il protettorato tedesco su Boemia e Moravia e aver inghiottito l’Austria con l’Anschluss, nel 1938, immaginò di impadronirsi di una buona metà della Polonia. Per farlo occorreva prima un accordo internazionale che gli consentisse di muoversi agevolmente e poi un’occasione per dare avvio alle ostilità.

L’alleanza fu realizzata con l’Unione Sovietica di Stalin. Nella notte fra il 23 e il 24 agosto 1939, i rispettivi ministri degli Esteri, Joachim von Ribbentrop e Vjaceslav Molotov, concordarono un’intesa di «non aggressione». Beninteso: «non aggressione» fra Berlino e Mosca, perché, sulle altre zone, le aggressioni andavano ad­dirittura pianificate.

Tedeschi e sovietici stabili­rono un «riarrangiamento» del territorio polacco: le province a est dei fiumi Narew e Vistola sarebbero rientrate nell’interesse sovietico, mentre quelle a ovest spettavano ai tedeschi. La spartizione non rimase sulla carta perché il pretesto per muoversi era già stato predisposto.

La sera del 31 agosto 1939, i tedeschi organizzarono una provocazione che valesse come giustificazione dell’intervento. Al comando di un ufficiale delle SS, Alfred Naujocks, alcuni uomini, fingendosi polacchi, penetrarono nella sede della radio tedesca di Gleiwitz (che stava sul confine fra Germania e Polonia) fecero leggere un comuni­cato verbosamente ostile al Terzo Reich e fuggirono lasciandosi dietro alcuni morti. Gli ammazzati tedeschi dovevano essere le vittime che Berlino doveva vendicare.

Infatti, la mattina dopo, le sbarre di confine furono sfondate e le truppe naziste si mossero da ovest verso est. Stalin, come convenuto, mosse da est verso Ovest, senza oltrepassare di un passo il confine sul quale si era accordato il suo ministro degli Esteri.

L’Europa tentennò. Il primo ministro britannico Neville Chamberlain annunciò alla Camera dei Comuni che si stava cercando di indurre Hitler a sospendere le operazioni. Lo interruppe un deputato: «È stato fissato un termine?», «Domani!» fu la risposta. «Se le condizioni non venissero accettate e» aggiunse calando di un tono la voce «a mio giudizio è molto probabile che non lo siano, l’ambasciatore di Sua Maestà è autorizzato a chiedere i lasciapassare».

Le difficoltà sorsero quando si trattò di sincronizzare le azioni di Londra con quelle di Parigi, che apparve più propensa a temporeggiare. Così Chamberlain decise da solo. La Gran Bretagna dichiarò guerra al Terzo Reich alle 11 del 3 settembre. La Francia la rincorse all’imbrunire, qualche minuto dopo le 17. Hitler non fu nemmeno il primo a utilizzare pretesti costruiti a tavolino.

Nei mesi immediatamente successivi al Primo conflitto mondiale, a dispetto dei patti siglati alla vigilia dell’entrata in guerra e delle convenzioni stipulate dopo, si pretese di rivendicare la sovranità sulla città di Fiume. Si trattava di difendere i connazionali che ci abitavano dalle angherie della gente di etnia slava. Insomma: un’operazione di soccorso.

Intanto, attribuire a Fiume il titolo di «italianissima» rappresentava già di per sé un abuso. Il censimento del 1910 aveva registrato una popolazione di 49.806 abitanti. Alla domanda sulla lingua abitualmente utilizzata, risul­tarono italofone 24.212 persone.
Numero significativo ma co­munque minoritario, visto che corrispondeva al 48,6% dell’intera popolazione. E il rapporto sarebbe diventato ancor più sfavorevole se fossero stati conteggiati anche i cittadini del Sussak, il nuovo quartiere sulla sponda Est dell’Eneo abitato quasi esclusivamente da croati che – non si sa perché – vennero del tutto trascurati.

Per «italofoni» dovevano intendersi coloro che, indipendentemente dall’etnia, utilizzavano l’italiano per comu­nicare. Perciò serbi e croati che, invece della loro lingua, preferivano usare l’italiano passarono per connazionali in pericolo che andavano difesi. E, peggio, loro stessi accreditarono la tesi secondo la quale l’esercito tricolore doveva intervenire per metterli al riparo dai pericoli che si costruivano da soli.

Gli Host-Ivessich, per esempio, facevano fatica a presentarsi come paladini dell’italianità perciò si fecero «prestare» un pezzo di cognome da amici milanesi in modo da denunciare un più plausi­bile Host-Venturi. Il presidente del Consiglio nazionale italiano di Fiume (cioè quello che invocava aiuti per i cittadini italiani maltrattati dai croati) si chiamava Antonio Grossich, era figlio di Matteo e Angela Frankovic e marito di Edvige Maylender. Analogamente, nel Consiglio, comparivano gli Adamich, i Blasich, Andrea Ossoinack o Marino Raicich.

Per sembrare un po’ più italiano, Icilio Baccich si troncò la desinenza del cognome e divenne Bacci. Alla vigilia della Prima guerra mondiale Wielm Oberdank si ritrovò con il nome tradotto in Gugliemo (e fino a lì…) e il cognome mozzato della desinenza per trasformarlo in Oberdan. Venne considerato il primo irredento, vittima della brutalità austriaca e a suo nome, oggi, in Italia, gli sono intitolate 77 vie, 14 piazze e 121 edifici scolastici. Come srotolando un vecchio film, con spezzoni di storia già ampiamente utilizzati, fu preparato un complotto per impadro­nirsi di Fiume.

L’organizzazione ebbe le stesse caratteristi­che della spedizione dei Mille. Le manovre della vigilia sareb­bero dovute restare avvolte nell’assoluta segretezza, anche se tutti sapevano tutto. Ampi settori dell’esercito parteggiarono per i rivoltosi. Non intervennero per sedare le manifestazioni propagandistiche e incoraggiarono l’esposizione di banchetti per l’arruolamento di volontari. Non poche furono le defezioni di soldati che svestirono la divisa dei reparti regolari per indossare quella dei volontari.

A capeggiare la spe­dizione si propose Gabriele D’Annunzio. Non finì proprio bene. Le potenze internazionali misero l’Italia nelle condizioni di scegliere fra un’alternativa: o s’incaricava lei – Italia – di ripristinare l’ordine turbato o gli Stati dell’alleanza ci avrebbero pensato loro. Il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti fu costretto a stringere l’assedio a Fiume e a bombardare il palazzo dove D’Annunzio si era insediato. «Il Natale di sangue».

Il pretesto di difendere connazionali in pericolo fu utilizzato anche da Benito Mussolini quando invase la Grecia. All’alba del 28 ottobre 1940, le truppe che stazionavano in Albania agli ordini del generale Sebastiano Visconti Prasca si misero in marcia prendendo la direzione di Atene. Iniziativa improvvida per le complicazioni strategiche che comportò e assurda sotto il profilo ideologico.

Il generale Ioan­nis Metaxas governava da quattro anni Atene, a capo di un go­verno di stampo fascista. Non disponeva delle coreografie ap­pariscenti, frutto della fantasia di Achille Starace, che piacevano tanto a Mussolini ma si era già incamminato per quella strada, avendo adottato il saluto romano, opportunamente ribattezzato «saluto greco».

L’Italia avrebbe potuto operare utilmente per indurre il parafascista Metaxas a schierarsi con l’Asse. Ma a Mussolini non interessava un alleato. Gli occorreva a ogni costo un avversario da sconfiggere. Per giustificare l’invasione, sostenne che, in Epiro, i greci vessavano la minoranza albanese, tanto che l’Italia, Paese protettore dell’Al­bania, si sentiva obbligata a occuparsene.

Per mostrare che il pericolo era reale venne organizzata (malamente) un’azione di auto-sabotaggio. Nel porto di Tiro, il sommergibile Delfino del tenente di vascello Giuseppe Ai­cardi affondò il vecchio incrociatore Elli. L’attacco giustificò le pretese fasciste che, però, rimasero nel cielo dei desideri. Le nostre truppe si dispersero fra i dirupi greci e dovettero affrontare una guerriglia che non diede loro respiro. L’esercito italiano non fu in grado di mettere in sicurezza gli albanesi dell’Epiro e, per la verità, non riuscì nemmeno a difendere sé stesso.

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