A una cinquantina di chilometri da Parigi, c’è uno degli «scrigni» dell’arte della Francia. In questo edifico dell’Ottocento dagli spazi incantati sono ospitate le collezioni Condé: straordinari dipinti accanto ad altre migliaia di opere.
A Parigi l’attività espositiva è ancora ferma. In attesa di Giovanni Boldini, rinviato per due anni al Petit Palais, dopo il grande rumore di Luca Giordano e Vincenzo Gemito, i musei hanno riaperto le loro collezioni, dal Louvre al Quai Branly, che io visito per trovare «l’altro mondo», in contrapposizione con quello occidentale, come aver iniziato un lungo viaggio. Se l’avesse visto Paul Gauguin si sarebbe potuto risparmiare di partire.
«Quello che è stato fatto nel museo Quai Branly è una “destoricizzazione” dei popoli del sud. È un museo delle arti e delle culture del mondo nel senso peggiore del termine. È un museo dell’esclusione e non dell’inclusione. Al museo dell’Uomo, progetto di Rivet aperto nel 1938, il tema principale era l’unità dell’uomo. Essendo esclusa, l’Europa diventa il corpo ordinatore di tutte le culture del mondo. E, in fondo, non c’è dialogo tra le culture del sud, c’è dialogo solo perché l’Europa è l’organizzatrice di queste culture del mondo. E ciò è passibile di una critica post-coloniale»: è la severa sentenza degli antropologi contro l’allestimento dell’architetto Jean Nouvel che ha stravolto l’ordine del primitivo museo, trasferendolo in una dimensione onirica.
L’unica mostra visibile, in un altro «mostro» architettonico creato da Frank O. Gehry per la Fondazione Louis Vuitton, un edificio storto e ingombrante, è il paradosso di questi tempi: l’esaltazione del mondo russo e del suo collezionismo, con opere provenienti dai grandi musei russi, il Puskin e la Galleria Tret’jakov di Mosca, l’Ermitage di San Pietroburgo svuotati per portarle a Parigi (come profughi: verranno mai restituite?) delle opere degli impressionisti francesi acquistati da Mikhail e Ivan Morozov. Domina su tutti un Picasso: Il ragazzo e l’atleta del 1905, remota riflessione su Michelangelo, trasfigurata in una pensosa essenzialità che nulla concede alla citazione. Intanto, in attesa di sviluppi sul fronte ucraino, la mostra è stata prorogata al 22 aprile, per evitare l’imbarazzo della restituzione a un Paese interdetto da embarghi e sanzioni.
Trattenere qualche miliardo di capolavori è una misura confacente e inevitabile. Claude Monet, Pierre-Auguste Renoir, Pierre Bonnard, Aristide Maillol, Maurice Denis, Paul Cézanne, Edgar Degas, Aldred Sisley sono tornati a casa. Perché restituirli sotto le bombe? Intanto i francesi sono riparati a casa loro, grazie all’imprenditore Bernard Arnault. Una vera novità, restauro e museo, è l’Hôtel de la Marine, restituito alla antica eleganza e destinato alla prodigiosa raccolta di primati artistici, talora equivoci, del colto emiro del Qatar Al Thani.
Parigi ha una grandezza e una misura che non hanno l’eguale per concentrazione e varietà in nessuna città del mondo: è l’unico luogo imprescindibile, e la vastità sconfinata del Louvre ne è una metafora. Ma da questa immensità colpisce il trasferimento a una dimensione «italiana» come nelle nostre centinaia di città, nei borghi mirabili, da Cividale a Orvieto, da Asolo a Sutri, in un luogo vicino per distanza, ma remoto per dimensioni come è Chantilly, dove torno per il museo Condé, una collezione piccola ma travolgente, per capolavori e spazi. A paragone dell’inarrivabile atmosfera di sale miracolosamente e umanamente colme di quadri scelti, il Louvre appare come i grandi magazzini, sterminato e alieno.
A Chantilly, che inizi a vedere da lontano, quando si restringono le strade, e ti pare di essere uscito del mondo per trovare, fra boschi e campagne, un rifugio segreto e protetto, i grandi capolavori, molti di maestri italiani, stanno nello spazio che chiedono e dove avrebbero voluto stare dopo la rapina dai luoghi da cui provengono. Il museo è di costituzione recente: fu creato da Enrico d’Orléans, duca d’Aumale che nel 1884 lasciò in legato all’Institut de France il castello e l’eccezionale collezione d’arte che aveva composto, con l’obbligo per l’istituzione di esporre al pubblico l’intera raccolta.
Allestito nell’antico edificio, con una museografia rimasta immutata dall’epoca della sua apertura, nel 1898, il museo è essenzialmente costituito di pitture italiane e francesi e di miniatura e manoscritti medievali, fra i quali le Très riches heures du Duc de Berry, il più famoso codice miniato medievale. Anche il più delizioso e pagano Raffaello, le Tre Grazie, è a Chantilly e ti aspetta in una stanza segreta, circondato di impressionanti miniatura di Jean Fouquet che non temono il confronto con Piero della Francesca.
Ma, dopo la folla al supermercato del Louvre, è sacra l’atmosfera del Salone grande del castello dove si fronteggiano italiani e francesi, e sono opere rare e risparmiate agli sguardi, potenti e sofisticate, da Sassoferrato a Mattia Preti, da Annibale Carracci a Nicolas Poussin, da Guercino a Philippe de Champaigne.
Alcune conservano il segreto di un dialogo mai finito con chi le ha riconosciute e volute, e qui protette: la prima è l’esoterica Simonetta Vespucci di Piero di Cosimo che intreccia perle fra i capelli, e porta una collana d’oro e di serpente, con indimenticabile stupore e naturalezza; le risponde, dopo secoli, un uomo che l’ha attesa oltre il tempo e la morte, per sempre sventata: Jean-Auguste-Dominique Ingres, impeccabile nel suo Autoritratto.
Fra dorati primitivi e preziosi Mazzolino alle pareti, vola un piccolo Sassetta, con il mistico matrimonio di San Francesco, complice di giovinette che si dividono fra cielo e terra di fronte a tenui colline nelle luci dell’alba. Se mai poesia si fosse calata in figure, qui ci sarebbe tutta. Contro le pareti rosse della Tribuna ottagonale si incrociano Primavere di Sandro Botticelli e Veneri di Jean-Auguste-Dominique Ingres; ma ogni dipinto riposa e vive nel suo posto, anche lontano dagli occhi.
Nelle piccole stanze che seguono ti attendono un altro campestre Mazzolino e un vivace frammento di città dipinta nel romitaggio di San Benedetto a Subiaco, carezzato dalla pittura smaltata di Beato Angelico. Ma improvvisamente, variopinto nei suoi abiti di stoffe orientali, e celato dalla sua stessa qualità, mi appare un dipinto del raro giorgionesco Cariani, nome d’arte del bergamasco Giovanni Busi, che si misura, in atmosfera zingaresca, con il Cristo e l’adultera, tra pentimento e stupore.
Psicologo come Lorenzo Lotto e prezioso come Cima da Conegliano, Cariani ingentilisce i cattivi, avvolgendo in uno scialle il vanitoso sacerdote, psicologicamente rozzo, e trasferendo comprensione e umanità nel soldato commosso e disarmato, sotto l’elmo lucido e luccicante. Un dipinto commovente e quasi nascosto, che ci attendeva nelle quiete stanze del castello. Ogni opera, dalle due Madonne di Raffaello a quella atletica di Perin del Vaga, sembra aspettare solo noi, cercando di farsi vedere il meno possibile per non dissolvere l’aura che l’avvolge.
Il duca di d’Aumaule l’ha esposta, ognuna prescelta con discrezione per preservarla piuttosto che esibirla. Siamo assistiti, nel percorso che la nostra mente sceglie, dall’aristocratica direttrice Nicole Garnier e dall’appassionato conservatore Mathieu Deldicque, felici di mostrarci i disegni di Raffaello nelle loro cartelle e la Gioconda nuda, nello spirito di Leonardo, che mi sembra propria di Bernardino Luini, il più classico dei leonardeschi.
Ma il mio ultimo sguardo è per un pittore amato, qui ancora ritenuto Francesco Francia, il bolognese che morì davanti alla bellezza dell’Estasi di Santa Cecilia di Raffaello, quando arrivò a Bologna. È una linda pala del ferrarese Nicola Pisano con un respiro largo che si trasmette ai due placidi committenti, quasi a casa in questa piccola città dove Enrico d’Orleans trasferì nel castello tutti i suoi sogni. Dalla silenziosa Ferrara alla quieta Chantilly. E noi qui.
