Da una parte, la contestazione al maschio bianco, vissuto da nemico secondo i modelli culturali più in voga. Dall’altra, una figura umana, che con un’identità complessa, contraddittoria ma nonostante ciò «forte», vive una crisi ma ha ancora molto da dire.
Un illuminante saggio letterario lo inquadra, ancha al di là dei personaggi da romanzo.
Non è un momento facile per il maschio. Agli uomini d’Occidente è richiesto – anzi, sarebbe meglio dire imposto – un ripensamento del proprio «ruolo di genere» (si dice così, di questi tempi). Con la scusa di combattere la «mascolinità tossica» e di eliminare la violenza che si vuole essere caratteristica fondamentale del maschile, si sta procedendo a una radicale riscrittura e riformulazione della virilità, il cui rischio più evidente è quello di distruggere il maschile in quanto tale, sacrificandolo sull’altare dell’ideologia. Basta dare un’occhiata alla mostra, attualmente in corso alla Galleria d’arte moderna di Roma, intitolata Ciao, maschio! Volto, potere e identità dell’uomo contemporaneo per rendersi conto di quanta negatività venga associata, di questi tempi, alla mascolinità.
Ha fatto molto discutere, in Francia come in Italia, il nuovo libro del filosofo Pascal Bruckner, Un colpevole quasi perfetto (Guanda), che individua proprio nel maschio-bianco-eterosessuale in Grande Avversario dei nostri tempi. «È da molto che un certo discorso femminista considera l’uomo come un nemico» spiega Bruckner. «Nel femminismo originario c’era questa idea che l’uomo fosse il colpevole ideale. Ma è con la fine del colonialismo che nasce in Occidente l’idea secondo cui l’uomo bianco ha oppresso i popoli di tutto il mondo e deve pagare per i suoi crimini. Nel discorso anticoloniale degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta era questa l’idea di fondo. Oggi ha perso struttura politica, e si è semplicemente legata al colore della pelle. Questa è la novità del razzialismo nordamericano rispetto all’antirazzismo di origine europea».
Certo, il maschio è osteggiato, attaccato, talvolta persino demonizzato. Eppure, nonostante tutti i discorsi sulfurei che la riguardano, la virilità mantiene la forza che da sempre (come dice la parola stessa) ne è caratteristica principale. Il problema è che, mentre abbondano i «grandi cattivi», le figure maschili negative, quelle positive sono in via di sparizione. Il maschio eroico è decisamente anacronistico, ce ne rendiamo conto anche soltanto parlandone. Questo tipo di eroe è tramontato da tempo, ben prima del femminismo, delle teorie Lgbt e del politicamente corretto.
È molto interessante, a riguardo, la lettura del nuovo libro di Alberto Asor Rosa, studioso di letteratura molto noto e non certo collocabile fra i nostalgici di una virilità olimpica, di una mascolinità «fascistoide» come quella che oggi viene raccontata dalle femministe e da gran parte della cultura progressista. Il saggio di Asor Rosa è dedicato a Joseph Conrad – e ai suoi capolavori La linea d’ombra, Cuore di Tenebra e Tifone – e si intitola appunto L’eroe virile. Lo studioso nota come già nelle opere conradiane si assista a una sorta di fase finale dell’eroismo virile.
Anzi, a dirla tutta Asor Rosa indica i grandi romanzi avventurosi di Conrad come l’«ultima chance» per «l’eroe bianco» (e maschio), un tentativo disperato di vivificare le ultime tracce di potenza maschile prima della inevitabile scomparsa. Scrive il professore: «L’eroe virile che egli [Conrad] rappresenta forse non ci piace, certamente non ci fa felici, ma non smette di emanare un’invincibile seduzione. Forse c’è restato solo quel tipo di uomo, nel corso degli ultimi due secoli, a farci sentire meno totalmente ricusabile e abietta la condizione virile. E in questo, forse, si misura la nostra attuale miseria».
Come vedete, Asor Rosa non si oppone all’attuale e prevalente visione negativa del maschile. Eppure riconosce la grande fascinazione che l’eroe virile è ancora capace di suscitare. È un’attrazione, questa, di cui non bisogna aver paura: farsi conquistare dall’eroe bianco non è un segno di arretratezza o di «mentalità patriarcale». L’eroe è una figura fondamentale per lo sviluppo fisico e psichico di ciascuno di noi (maschi e femmine), e farne a meno non si può. Il problema vero è: dove trovare, oggi, modelli positivi?
E poi, anche qualora questi modelli si riuscisse a individuarli: come è possibile, ai nostri tempi, esercitare l’eroismo? Ebbene, proprio l’opera di Conrad ci fornisce indicazioni importanti. Asor Rosa individua perfettamente alcuni tratti fondamentali dell’eroe virile. Il primo è senz’altro la vocazione al rischio. «”Mettersi a rischio” – è questo e ciò che capita infallibilmente a ognuno degli eroi dell’universo conradiano – espone, oltre che il proprio corpo, anche la propria anima alla prospettiva di una frantumazione o cancellazione vera e propria, consente di provare fino in fondo di cosa si è capaci».
In quest’epoca prevale l’ideologia del «rischio zero». Come ha scritto Robert Redeker (in L’eclissi della morte, Queriniana), «quando non si ha che il corpo per vivere, la sua immortalità diventa un’ossessione». Tra noi, oggi, prevale la paura: il rischio, al massimo, è contemplato nelle operazioni finanziarie (specie quelle che prevedono l’utilizzo di denaro altrui). L’eroe, invece, vive con la consapevolezza della morte, è disposto a rischiare la sopravvivenza fisica pur di compiere la sua impresa. Un’impresa di cui, tuttavia, non sempre è consapevole.
È infatti troppo riduttivo presentare l’eroe virile come colui che compie qualcosa di straordinario. In primo luogo, l’eroe è prima di tutto colui che «conosce se stesso», cioè affronta il pericolo, i tormenti, le paure e arriva a incontrare la propria parte più nascosta: la propria anima, direbbe qualcuno. Insomma, egli trova dentro di sé quel frammento di divinità – di Verità – che tutti conteniamo e che però è per i più troppo difficile da contemplare.
L’eroe, nota Asor Rosa, «è costretto a misurarsi con un nemico di volta in volta diverso ma ogni volta di gran lunga superiore alle sue forze». In realtà, l’eroe si misura sempre con la stessa «forza oscura». Egli rischia e si colloca, proprio come avviene nei romanzi di Conrad, sulla «linea d’ombra». Affronta, appunto, quella che Jung chiamava ombra, passa attraverso «l’imbrunire» per poi uscire, rinnovato, all’alba. Nei romanzi di Conrad spesso il luogo oscuro è la profondità dell’abisso oppure una foresta, una giungla, il «bosco» che ritroviamo anche nelle opere di Ernst Junger. Claudio Risé ha ben spiegato che cosa simboleggi questo bosco: «Ciò che ci fa paura più di ogni altra cosa è la morte. E allora il Bosco è la grande dimora della morte, la rappresentazione del pericolo di dissoluzione e il luogo di più profonda meditazione su di essa».
Rieccoci al punto di partenza: alla dimensione del rischio. Ma ecco anche il dramma: dove trovare, oggi, la «linea d’ombra»? Conrad spinge i suoi eroi al limite estremo del mondo. Un altro grande scrittore – emblema, a suo modo, della potenza virile – come Ernest Hemingway (di cui ricorre il settantesimo dalla morte) cercò il rischio nella guerra di Spagna, nella boxe, nelle avventure esotiche. Anche lui, forse, rincorreva quella virilità al tramonto che Asor Rosa ravvisa nelle opere di Conrad. Come noto, non è finita benissimo.
Il problema sta proprio qui: per «conoscere se stessi» non serve andare ai confini del mondo. O, almeno, oggi non è più possibile farlo. Il mondo, ormai, è tutto disvelato, privo di «zone d’ombra». La ricerca, allora, va condotta dentro se stessi. Bisogna discendere nelle profondità oscure – magari nel silenzio, con la meditazione, o la preghiera o comunque la riflessione quotidiana – per cercare quel frammento di Verità che gli eroi conradiani inseguivano in villaggi sperduti. L’eroe virile non è morto. Ciascuno di noi può esserlo, a patto che davvero faccia i conti con l’Ombra. Quella che lo circonda nel mondo spietato, certo, ma prima di tutto quella che sta dentro di lui, rischiando ogni cosa in una «battaglia spirituale» che si combatte ogni giorno.
