Lo straordinario museo di un grande artista-artigiano, a Feltre, in provincia di Belluno. Qui si ripercorre una storia di passione
e sapienza del Novecento, tra opere raccolte e creazioni personali. E, modellati in un materiale fragile ed eterno, si ammirano capolavori.
Tra le rare case magiche d’Italia, case d’artisti – assieme allo studio-dimora dello scultore Carlo Bonomi a Turbigo, alla casa di Pietro Gaudenzi ad Anticoli Corrado, allo studio di Ludovico Pogliaghi a Varese – non si può dimenticare, per poesia e intelligenza di invenzione, la casa-museo di Carlo Rizzarda a Feltre, dopo anni riabilitata, come esemplare spazio espositivo, dall’ultimo architetto sensibile della covata di Carlo Scarpa, Ferruccio Franzoia.
Rizzarda ebbe particolare fortuna a Milano nel settore ristretto e sofisticato, tra artigianato e industria, del ferro battuto, sulla scia del monumentale Alessandro Mazzuccottelli. Il suo studio di Milano è stato ricomposto nel Palazzo Bovio-Villabruna Cumano di Feltre già nel 1938, grazie all’architetto Alberto Alpago Novello e io lo vidi, tra meraviglia e incuria, negli anni Settanta al tempo della sua massima decadenza.
Lo rivedo ora, in una notte incantata, riordinato in modo esemplare, dividendo le collezioni, i dipinti e le sculture degli artisti amici Libero Andreotti, Adolfo Wildt, Guglielmo Ciardi, Guido Marussig, Felice Casorati, Cesare Monti, Aldo Carpi, Enrico Mazzolani, Francesco Messina; e, nelle sale del piano nobile, sotto mirabili stucchi, la collezione di ferri battuti di Rizzarda, nel mutevole gusto che svaria da un gotico senza nei, a un floreale senza fiori, a un decò di geometrica eleganza.
Rizzarda partì dalla formazione di fabbro a Farra vicino a Feltre, ma capì presto, a poco più di 20 anni, quale vantaggio fosse trovarsi a Milano ai tempi delle Esposizioni universali, agli inizi del secolo XX. Nel 1905 s’iscrisse alla scuola di disegno della Società Umanitaria, all’epoca diretta da Eugenio Quarti e con Mazzucotelli professore del corso dei fabbri-ornatisti. Rizzarda seguì anche il corso di stilistica presso l’Accademia di Belle arti di Brera, con Bruno da Osimo. Dal 1907 al 1911 insegnò disegno a Milano e Lodi.
Nel 1911 acquistò il laboratorio di Giuseppe Marinoni, in via Cappuccini 15, dando così vita alla nuova ditta «Officina costruzioni in ferro». Nel 1916 partì per la Prima guerra mondiale e solo al rientro riprese l’attività artistica, collaborando con la ditta Bernotti, e poi fondando la propria società nel 1919. Il culmine della sua affermazione artistica fu nel 1923, alla Biennale delle arti decorative di Monza. Partecipando a tante esposizioni in tutto il mondo, Rizzarda ebbe gran fama anche in Sudamerica e, nel 1925, gli fu commissionata la cancellata in bronzo e ferro battuto per la basilica di Nostra Signora della Mercede a Buenos Aires.
Ugo Ojetti ne intuì la natura profonda di artista: «E nella sua arte di ferraio, anche mantenendosi da buon veneto fedele alla sinuosa grazia settecentesca, dovendo obbedire agli ordini e spesso ai capricci dei committenti, egli mostrava ogni anno più attenta la ricerca d’essere originale, senza tradire la propria indole e la natura della materia che trattava. Ormai dominava la perfezione del mestiere, in ogni particolare, e l’eleganza della fantasia con un’unità, si può dire, di architettura e con una nettezza di cadenze inconfondibile.
Della sua abnegazione è prova il suo amore per l’insegnamento. Quel che sapeva, voleva che lo sapessero tutti, i suoi compagni nell’officina, i suoi allievi nelle scuole di Milano e di Lodi. Quando era chiamato a giudicare un collega, solo se poteva giustamente lodarlo era felice. Egli è morto quando pei lavori d’arte i tempi si facevano difficili. Ora è da considerare che, a parità di merito nell’arte, solo chi avrà le doti morali di Carlo Rizzarda, riuscirà a vincere queste difficoltà. Perciò, dicevo, egli resta vivo e presente come un esempio». Nulla di più vero, oggi come allora.
La felice intuizione di legare tutto alla sua città, con l’acquisto del palazzo, sembra premonitrice del destino che lo portò a morire a soli 48 anni. Non poteva sperare, Rizzarda, in un migliore e più fedele interprete di Ferruccio Franzoia che, trovandosi a nascere e vivere a Feltre, lo ha sentito come un fratello e lo ha onorato con un allestimento semplice e sapiente. Ma non basta: ha voluto, al terzo piano del palazzo, integrare il legato Rizzarda con una formidabile serie di vetri veneziani delle diverse fabbriche, ordinati con una misura e una pulizia rare ed esemplari. È un importante arricchimento del museo già così sofisticato e specialistico nell’indicare quella vita della forma che si fa, nel ferro, di volta in volta, vegetale e animale. Nell’invenzione di Rizzarda si avverte la volontà di rendere leggera la materia trasferendola dalla dimensione plastica a quella grafica.
Con il ferro Rizzarda disegna fino ai minimi particolari, restituendo il profumo dell’erba e dei fiori, in una vera immersione. Nel ferro battuto prolunga ed eternizza la natura che si fa forma perenne. In lui l’artista, per forza di poesia, seguiva il grande artigiano, il fabbro, come prediligeva chiamarsi. Ma nei ferri entrava la sua anima, comunque incorporea. E di qua una contrapposizione, anche se in molte sue opere rappresenta un’integrazione. L’arte più lontana dal ferro è proprio l’arte del vetro, anche se a entrambe è necessario il fuoco. Il vetro è luce, forma trasparente, materia trasfigurata.
Le collezioni di vetri veneziani di Franzoia sono una proiezione della sua anima. I 160 «Zecchin» rappresentano il corpus più ampio dell’artista vetraio che rendeva leggero e onirico Gabriele D’Annunzio. In un ordine esemplare si susseguono i fiati animati di tutti i maestri, tra anni Venti e anni Ottanta. Subito dopo la Prima guerra mondiale iniziarono le collaborazioni tra artisti e fornaci. Vittorio Zecchin divenne direttore artistico della «Vetri Soffiati Muranesi Cappellin Venini e c.», nata nel 1921 e specializzata nel recupero degli stili dei vetri cinquecenteschi, derivati dai dipinti rinascimentali, come il Calice costolato e il Vaso Veronese.
Altri artisti come il pittore Guido Cadorin e lo scultore Napoleone Martinuzzi collaborarono con le aziende e quest’ultimo, nel 1925, alla separazione di Cappellin e Venini, divenne direttore artistico della «Nuova Vetri Soffiati Muranesi Venini e c.» fino al 1932.
Tra le sue opere, che valorizzano l’esperienza di scultore, gli anatroccoli in vetro e filigrana del 1929 e un tipo di materiale opaco con bolle d’aria o «puleghe» inglobate, detto perciò «pulegoso», oggetti di spessore consistente come frutti, funghi e piante grasse decorate da nastri.
Negli anni Venti Umberto Bellotto, collega lirico di Rizzarda, si distinse perché accostò il vetro al ferro battuto e collaborò con la Pauly & c. e prima con Barovier, la vetreria artistica più attiva tra il 1920 e il 1930, anche grazie al tecnico e designer Ercole Barovier. Seconda per importanza era la S.A.L.I.R., nota per il vetro inciso e per la collaborazione dell’acquafortista Guido Balsamo Stella e dell’incisore boemo Franz Pelzel. All’inizio degli anni Venti riaprì la Salviati con l’estro creativo di Dino Martens e quello geometrico di Mario De Luigi. Nel 1940 si cominciò a considerare come tradizione vetraria anche il vetro di grosso spessore e dagli anni Trenta si datano i multiformi e concettosi vetri di Carlo Scarpa per Venini, magistrale anche nel frammento.
Non meno notevoli, sempre per Venini, i vetri di Tommaso Buzzi che propose soggetti spesso ispirati all’arte antica e ideò un tipo di vetro opaco a piu strati di colore, rifinito di foglie d’oro, che, a seconda delle tonalità, è laguna, alba, alga e tramonto.
Dopo la guerra, alla ripresa dell’attività, si distinsero ancora Ercole Barovier e Giulio Radi per la AVEM, con l’uso di sofisticati coloranti metallici, mentre Alfredo Barbini modellò a caldo una serie di sculture. Archimede Seguso, perseguendo le tecniche tradizionali, realizzò in filigrana preziosi tessuti. Dagli anni Cinquanta la fornace di Paolo Venini, diretta dal 1959 dal genero Ludovico Diaz de Santillana, collaborò con designer di ogni nazionalità e i due figli di Ludovico, Alessandro e Laura, crearono con il vetro mosaico piatti di particolare bellezza.
La collezione novecentesca di Franzoia documenta tutto questo, in un momento essenziale della storia del vetro veneziano, e contribuisce a far sentire quanto della grande civiltà veneziana sia nella piccola Feltre che, nel Rinascimento, fu parte della Repubblica di Venezia. Le luci di quei vetri ce ne danno piena testimonianza. Veneziani come Giorgione, come Tiziano, come Bassano, furono anche i più visionari pittori di Feltre: Lorenzo Luzzo e Pietro Marescalchi. Venezia non può fare di meglio.
