Mutui a basso costo. Velocità nella somministrazione dei vaccini anti Covid. Mercato finanziario e immobiliare alle stelle. L’uscita di Londra dall’Unione doveva essere una tragedia e invece si sta rivelando ricca di opportunità.
Mutui con tassi d’interesse più bassi, una ricetta su misura per l’immigrazione, la sterlina stabile, un’economia che tiene botta, nonostante tutto. La Gran Bretagna balla da sola, alla faccia dei detrattori della Brexit. Il disastro preannunciato con toni apocalittici da chi non voleva saperne di uscire dall’Europa ancora non è avvenuto. Sarà perché la crisi globale scoppiata durante il Covid si è sovrapposta alle conseguenze della Brexit, rallentando i negoziati della seconda fase, quella sui singoli accordi commerciali; sarà anche perché, in fondo, il Regno Unito ha saputo trarre immediati e significativi vantaggi dal taglio del cordone ombelicale con un’Unione in cui non si era mai trovato a proprio agio, tanto da non averne voluto adottare la comune moneta.
«I benefici della Brexit continuano…» ha twittato deliziato il 29 aprile il neo ministro per le opportunità della Brexit, Jacob Ree-Mogg, commentando l’intenzione espressa dalla Banca d’Inghilterra di concedere mutui a basso tasso d’interesse a milioni di cittadini. Una promessa resa possibile dalla decisione del governo britannico di sganciarsi dall’intrico di regole tanto care a Bruxelles che di fatto impediscono, soprattutto alle banche di medie e piccole dimensioni, di offrire tassi agevolati ai propri clienti. Una nuova normativa consentirà infatti agli istituti di credito di poter effettuare alcune modifiche «tecniche», lasciandole nelle mani di esperti del settore anziché ai burocrati della politica. Un approccio molto più pragmatico, «un modo di fare le regole più britannico, con una legislazione meno puntigliosa e più spazio di manovra, in modo da mantenere e sviluppare una regolamentazione dinamica e coerente», lo ha definito Sam Woods, a capo del Pra (Prudential regulation authority), l’organismo che detta le regole finanziarie per la City.
Liberarsi dalle pastoie continentali e riprendere il controllo del proprio Paese è sempre stato il manifesto del distacco così pervicacemente voluto da Boris Johnson e dai suoi «leavers». La campagna vaccinale – partita in anticipo proprio perché non ha dovuto attendere il via libera dell’ente regolatore europeo – è stato il primo fiore all’occhiello della Brexit ed è rimasto l’unico per tutti i due anni della pandemia, visto che il virus aveva paralizzato anche le trattative tra le due parti. In quel periodo i fan europeisti si fregavano le mani nel vedere la City svuotarsi a causa del lockdown, prevedendo la sua caduta sotto il peso del doppio effetto Brexit+Covid. Eppure, finora hanno dovuto ricredersi. Londra è rimasta il cuore della finanza mondiale. Secondo il rapporto EY Brexit Tracker, delle previste 12.500 partenze dalla City se ne sono concretizzate soltanto 7 mila. La maggior parte dei trasferimenti di personale del settore finanziario ha puntato su Parigi, Francoforte e Dublino. Milano ha raccolto le briciole. Anche le previsioni delle varie società di consulenza sulle possibili perdite di posti di lavoro sono state smentite. Durante la pandemia la fuga dalla città è stata temporanea e virtuale poiché le banche sono riuscite a organizzarsi lasciando operare i propri dipendenti da remoto.
E adesso che il Paese sta tornando alla normalità la capitale vive l’ennesimo boom immobiliare, anche se le zone più ricercate sono diverse da quelle del periodo precedente al Covid. Ancora una volta gli inglesi sono riusciti a giocare d’anticipo, inventandosi nuovi modelli occupazionali, grazie a un’alta flessibilità del mercato del lavoro. A breve, proprio nel Regno Unito, partirà persino un progetto sperimentale di una settimana lavorativa di soli quattro giorni a stipendio pieno, che intende dimostrare l’aumento della produttività delle persone al decrescere delle ore di lavoro. Se il governo inglese ha però tutto l’interesse a enfatizzare i vantaggi della Brexit, gli analisti indipendenti non esitano a evidenziare le criticità del momento e i rischi di cui bisogna tener conto, soprattutto in futuro. L’ultimo rapporto della London school of Economics and Political scienze, per esempio, ha rilevato che, sebbene l’economia sia ritornata ai livelli prepandemici, la Brexit aveva già provocato una riduzione del 25 per cento negli scambi commerciali con l’Europa.
E benché l’uscita dall’Ue non abbia, finora, causato danni significativi alle esportazioni – come rileva lo studio effettuato dall’Osservatorio indipendente Uk in a Changing Europe – il deficit tra il 2018 e il 2021 è aumentato di 8 miliardi e le esportazioni di servizi finanziari e di consulenza si sono ridotte; anche se il debito pubblico inglese calcolato a fine 2021 si riconferma più basso della media dei Paesi del G7. Tra le «conquiste» della Brexit, va sicuramente annoverata anche quella nuova riforma del controllo dei confini che al momento si rivela pure la più controversa. Se infatti la sostituzione della libera circolazione delle persone con il sistema di immigrazione a punti aveva suscitato parziali resistenze, il piano annunciato dal ministro agli Interni Priti Patel sulla delocalizzazione in Ruanda dei clandestini considerati «economici» sta spaccando l’opinione pubblica e lo stesso partito conservatore.
Comunque vadano a finire le cose, saranno i britannici a scegliere come fronteggiare il problema, senza interferenze da parte di Bruxelles. Con l’Europa i ministri di Johnson dovranno invece risolvere il nodo del Protocollo irlandese, se vogliono che l’addio all’Unione si completi. Per fronteggiare l’aumento del costo della vita il Regno Unito ha posticipato per la quarta volta i controlli sulle importazioni di merci europee, ma le tensioni nell’Irlanda del Nord permangono. «Mentre continuano le trattative, un accordo del 2020 ha sancito il rinnovo dell’assemblea di Stormont dopo tre anni di sospensione» spiega Sarah Overton, ricercatrice di Uk in a Changing Europe, «e ora il nuovo esecutivo dell’Ulster dovrà fronteggiare le problematiche che sorgeranno a seconda delle soluzioni proposte.
L’impatto di Brexit, Covid e dello stesso governo sul Paese sono in continua evoluzione: tutti questi fattori avranno il potere di mutare in futuro – in molte aree è già accaduto – il funzionamento del Regno Unito, sia nella sua interezza che nelle sue singole entità. Un giudizio definitivo andrebbe però ancora sospeso, come sottolinea l’economista Tim Worstall. «L’Europa ha avuto 47 anni per provare che la nostra adesione all’Unione era una buona idea. Valutiamo allora la bontà della Brexit usando lo stesso standard di misura». E chissà, magari stavolta non dovremo neppure aspettare fino al 2067 per sapere com’è andata a finire. n