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Stalingrado, ultimo atto

Stalingrado, ultimo atto

Il 2 febbraio 1943 ebbe termine la più sanguinosa battaglia della Seconda guerra mondiale, combattuta fra tedeschi e sovietici. Centinaia di migliaia di soldati e civili morti e una città totalmente distrutta nello scontro, durato un anno e mezzo, che fece cambiare corso al conflitto. Per il Terzo Reich la prima tragica sconfitta.


Quando Friedrich von Paulus accettò di firmare l’atto di resa al nemico, restò in piedi quasi sull’attenti, con una mano «aggrappata» all’altezza della cintura come se – parola di testimoni – «volesse strapparsi il fegato dal fianco». All’imbrunire del 31 gennaio 1943, ottant’anni fa, con la sconfitta dei reparti nazisti e la vittoria delle truppe di Mosca, terminò la battaglia di Stalingrado. In quella sacca di terra russa erano già morti 700 mila tedeschi e mezzo milione di sovietici. La resa ufficiale avvenne il 2 febbraio. Un altro migliaio di soldati della Germania fu ucciso nelle settimane successive in rastrellamenti. A comandare quell’ultimo atto di guerra dalla parte dei difensori fu Konstantin Rokossovskij, un generale polacco che anni addietro era stato arrestato nel contesto di una delle tante «purghe» e poi riabilitato al punto da ottenere il comando di un’armata. Eseguì gli ordini con un ardore superiore allo zelo di solito dovuto a un dittatore e si meritò come titolo «il martello».

In quel momento, la Seconda guerra mondiale cambiò il suo corso. Fino ad allora l’esercito tedesco era parso debordante, ma dopo la sconfitta rovinosa non riuscì più a dare impulso alla guerra che, anzi, si trovò nelle condizioni di subire. Un anno e mezzo prima, Adolf Hitler aveva dato ordine d’invadere i territori russi e sembrò che le sue divisioni potessero piegare i nemici in pochi mesi. Il 22 giugno 1941 presero posizione 8 milioni di soldati: chi per muoversi all’assalto (3 milioni e 50 mila fra nazisti e alleati), chi per proteggere i propri confini (4 milioni e 700 mila sovietici). Nella prima fase dell’offensiva, i panzer e le divisioni di fanteria confermarono l’impressione che si trattasse di una fase «lampo» del conflitto. Il comando tedesco parlò di «colpo decisivo». E di colpi in effetti ce ne furono, ma non decisivi.

Le armate corazzate del generale Heinz Guderian (da nord) e del Feldmaresciallo Paul Ludwig Ewald von Kleis (da sud) si avventarono sul fiume Dnepr per mettere all’angolo le forze che difendevano l’Ucraina. Fecero 10 mila prigionieri. Poco dopo, con la caduta di Kiev, altri 600 mila soldati si consegnarono ai nazisti. Il comando russo si rese conto che affrontare direttamente la macchina bellica dei tedeschi equivaleva a suicidarsi. Rinunciarono alla difesa a oltranza e accettarono di ripiegare utilizzando come alleati gli immensi spazi della steppa. In fondo, un secolo prima, quella strategia si era dimostrata vincente contro le forze altrettanto imponenti di Napoleone. Beninteso: non si trattò di scappare davanti al nemico. I sovietici misero in atto una specie di guerriglia di enormi proporzioni. Imprevisti e vigorosi soprassalti di resistenza russa resero estenuante e nervoso il progredire delle truppe di Hitler.

Combattimenti aspri, per esempio, a Nikitovka, dove si trovarono coinvolti anche i reparti italiani che Benito Mussolini aveva inviato per fiancheggiare l’esercito di Hitler impegnato nell’est dell’Europa. L’orizzonte sempre uguale e spoglio di vita sembrava studiato per fiaccare il morale dei soldati e togliere vitalità alle truppe. Le piogge autunnali complicarono l’avanzata dei tedeschi. Che – autonomamente – trovarono il modo di moltiplicarsi i problemi, dividendo l’esercito in tre e fissando per ciascuno una direzione di marcia diversa. Il piano era immaginato per occupare maggiore spazio ma il risultato fu che ognuno di quei tronconi risultò più debole ed esposto al nemico. Il ripiegamento sovietico si fermò ai sobborghi di Stalingrado.

Fino a quel momento, avevano ceduto centinaia di chilometri quadrati di niente, ma lì si trattava di difendere i pozzi petroliferi e i giacimenti di Majkop. I tedeschi ne avevano bisogno perché, fra le loro armate, cominciavano a scarseggiare i rifornimenti. E i russi compresero che impedirglielo avrebbe avuto un valore strategico cruciale. Il 28 luglio 1942, Iosif Stalin lanciò il prikaz, il suo Ordine numero 227, che riportò la guerra al combattimento frontale. Il dittatore sovietico non era uomo di troppe parole. Gli bastò ordinare: «Non più un passo indietro!». La lotta che si scatenò fuse l’acciaio di tank e accatastò montagne di morti.

I tedeschi che erano un esercito d’élite andarono all’assalto attuando un piano di battaglia anche efficace. E, certo, nelle prime settimane, i combattimenti favorirono gli assalitori. Conquistarono alcune teste di ponte sul fiume Don e gli aerei della Luftwaffe resero al suolo la periferia di Stalingrado. Nell’esercito sovietico, accanto ai soldati, combattevano le donne e fu proprio un loro gruppo che si mise alla contraerea per arginare gli assalti nemici. In quell’occasione, i risultati pratici furono minimi ma rappresentarono il segnale della volontà di resistere. E non mollarono nemmeno quando le condizioni di vita si fecero disperate.

Soldati divorati dalla fame, con armamenti approssimativi e pochi medicinali per curarsi. Continuarono a combattere senza gambe mentre si dissanguavano. Sfidarono i nemici strisciando nelle loro avanguardie con il pugnale fra i denti. Si rotolarono sotto i carri armati per farli saltare in aria con l’esplosivo. Vissero – o, piuttosto, si lasciarono vivere – come fossero in un girone dell’inferno. «Stalingrado» scrisse un milite russo «non è più una città. Di giorno, è un’enorme nuvola di fumo accecante, E, quando viene buio, i cani si tuffano nel Volga perché la notte li terrorizza».

Gli animali si sarebbero arresi ma i sovietici tennero duro fin quando, agli ordini del generale Georgij Zhukov, furono nelle condizioni di passare al contrattacco. Nonostante i soldati perduti, Stalin disponeva di risorse umane imponenti. Il suo Stato maggiore riuscì ad attuare un piano che, con due movimenti a tenaglia, da sud-est e da nord-ovest, isolò l’armata di Von Paulus circondandolo con forze rinvigorite dal successo. Cinque divisioni rumene si arresero senza resistere. Tutti gli altri si ritrovarono come chiusi in un immenso campo blindato: 284 mila uomini, 100 carri armati, 1.800 cannoni e 10 mila automezzi. Quando si chiuse la morsa, c’erano anche 79 italiani, arruolati come autieri e arrivati con camion carichi di rifornimenti (soprattutto cibo e scarponi). Hitler sottovalutò il pericolo. Mentre lo Stato maggiore lo incalzava proponendo soluzioni tattiche per rompere l’assedio di Von Paulus, lui continuò a sostenere la tesi che avrebbe risolto il problema con il carro Tigre che era praticamente pronto per essere utilizzato in guerra. Nel frattempo, si trattava di assicurare i rifornimenti necessari impiegando aerei e piloti del generale Hermann Göring.

Manco a dirlo, delle due iniziative immaginate non funzionò né l’una né l’altra. I Tigre dovettero accontentarsi del nome che li indicava come ferocemente aggressivi. E gli aeroplani non riuscirono a svolgere le loro missioni. I comandanti avevano promesso aiuti quotidiani per 700 tonnellate di materiali, ma poi convennero che non si poteva andare oltre la metà. E, all’atto pratico, ne arrivò la metà della metà (scarsa): 3.200 tonnellate in 60 giorni, costate il sacrificio di 488 velivoli, abbattuti dal fuoco delle contraeree.

L’ultimo tentativo venne dal generale Erich von Manstein che aveva preso il comando del gruppo di armate battezzate «del Don». Immaginò di attaccare le truppe sovietiche attorno a Stalingrado prendendole da est. Contemporaneamente Von Paulus avrebbe dovuto operare uno sfondamento sul suo lato ovest. In questo modo, i russi sarebbero stati presi tra due fuochi tanto che, con ragionevole certezza, si poteva ritenere di rompere l’assedio. L’operazione doveva chiamarsi «tempesta d’inverno». Il progetto rimase nell’ordine delle idee. Hitler, più che tiepido, restò freddo. E Von Paulus, schiacciato psicologicamente da una condizione di inferiorità, non riuscì a mobilitare le truppe efficacemente. Von Manstein tentò ugualmente la «tempesta d’inverno» ma dovette fermarsi a 60 chilometri dalle posizioni di Von Paulus. Che, strangolato dalle forze nemiche, non ebbe alternative che accettare la resa. Con l’istinto di mutilarsi, strappandosi un pezzo di budella.

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