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Ora basta smart working

Ora basta smart working

Provoca più problemi di quanti ne risolva: siamo fatti per interagire con gli altri anche nel lavoro. E lo stesso Karl Marx offre spunti interessanti su cosa possa essere l’alienazione…


In Lombardia un lavoratore su due, secondo una ricerca condotta dalla Uil, non vuole tornare in ufficio ma preferirebbe continuare questo benedetto smart working. Riassumendo i dati principali dell’indagine, vediamo che il 50 per cento degli intervistati non intende riprendere la normale routine in ufficio, ma vorrebbe proseguire il lavoro da casa propria.

Addirittura, nei settori bancario e assicurativo, la quota di coloro che per sindromi di ansia, paura e disorientamento vorrebbe continuare a lavorare «a domicilio» sale all’80%. Il 35% delle aziende sta ricorrendo allo smart working: più di una su tre. Prima della pandemia era appena il 15%. Una multinazionale ha poi calcolato che le imprese hanno risparmiato fino al 20% nei consumi di acqua e di energia (tale dato è stato ottenuto per mezzo di un algoritmo e sarebbe interessante capirne qualcosa in più).

È financo superfluo ricordare – o almeno così si potrebbe pensare – che la socialità sia un elemento fondamentale nel lavoro. Alcuni impieghi sono letteralmente inconcepibili senza una presenza e il conseguente scambio di opinioni, generalmente all’origine di molte soluzioni creative, efficienti, economicamente convenienti.

Se è vero, infatti, che si pensa da soli è altrettanto vero che si capisce insieme. Che poi si diffondano sindromi da ansia, la paura di una riduzione delle capacità relazionali a causa di lunghi periodi di permanenza solitaria a casa, sono dati che possiamo ritenere scontati; lo stato di disagio provocato anche solo dall’idea di tornare nel luogo della tradizionale occupazione non può assolutamente significare che lo smart working possa o debba diventare la formula ideale del lavoro.

Non è un caso che Karl Marx, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 dove descrive le forme di alienazione, indichi la quarta come «alienazione dagli altri»; secondo il filosofo, è dovuta alla mancata partecipazione dei lavoratori alla proprietà delle industrie. Ci sembra che la lezione di Marx, almeno in questo, risulti di grande attualità. Se l’alienazione nel lavoro prodotta dall’isolamento a casa in un primo momento può generare quel fenomeno che la ricerca della Uil definisce «sindrome della grotta», cioè un luogo al riparo dalla paura del contagio e in generale delle relazioni, ebbene questa situazione non si può trasformare nella condizione ideale.

Le modalità del lavoro di oggi non possono diventare il paradigma per quello di domani. Del resto una ricerca, stavolta curata da Linkedin, ci dice che lo smart working ha prodotto conseguenze psicologico relazionali negative: ha incrementato in coloro che lavoravano da casa patologie di tipo ansioso e depressivo, nonché un’importante compromissione delle capacità empatiche e cooperative. Capito bene?

E c’è forse qualcuno che, avendo lavorato in un bilocale di 70 metri quadri con due o tre figli in Dad e magari con coniuge in smart working, dicevamo c’è qualcuno che può meravigliarsi delle conseguenze psicologiche e relazionali di tipo patologico che hanno iniziato ad affliggere molte persone? Vogliamo fare una ricerca specifica sulle mamme che hanno lavorato da casa con i figli in Dad? E dovendo comunque gestire tutto il resto? Questo sarebbe il paradigma del lavoro futuro? Ma siamo pazzi, dico, completamente rincretiniti, o c’è ancora qualche speranza di un barlume di ragionevolezza?

Qualche ricerca ha sottolineato invece che tra gli aspetti positivi dello smart working ci sia stato un risparmio nella spesa per baby sitter. Ma a questi «cervelloni della contabilità familiare» vorremmo proprio chiedere se, nel calcolo delle negatività, non è stato incluso il fatto che il costo delle baby sitter è diminuito perché è aumentato il lavoro delle mamme; le quali, oltre a badare ai pargoli, oltre a curare la casa, hanno dovuto stare attente che i figli non giocassero con lo smartphone e si scollegassero da quell’indefinibile Dad.

Da un’ulteriore ricerca condotta dalla Fondazione studi dell’Ordine dei consulenti del lavoro è emerso che il 48,3% degli intervistati ha sofferto di ansia da prestazione, prolungamento dei tempi nell’impegno quotidiano, disagi per i ristretti spazi fisici e le postazioni dove lavorare con effetti negativi sul fisico.

Per chi non vive nelle torri d’avorio ma ha un po’ di consuetudine con il mondo reale, questi dati non sono una sorpresa e ci riportano a una verità di fondo che non va mai dimenticata: l’uomo è fatto per vivere con altri individui e con gli altri passare, come minimo, quel terzo del tempo quotidiano che dedica al lavoro. Il resto sono astrattezze che fanno solo del male e contro le quali occorre alzare la voce. Contro una concezione inaccettabile non per motivi ideologici, ma perché non si basa sul comune senso di umanità.

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