Ventimila minori sono stati denunciati per violenza. Singoli ragazzi o baby gang. E c’è un solo modo per aiutarli a cambiare.
«Essere delinquenti? È di moda». Quello che colpisce quanto senti parlare i giovani delle cosiddette baby gang è che sentono fortissima l’attrazione del male. Il male è di moda. Il male è bello. Il male è affascinante. Il male, se lo filmi e lo metti su TikTok, ti fa fare tanti clic. Qualche giorno fa hanno fermato a Reggio Emilia una banda di ragazzini: andavano a rapinare supermercati e assaltavano autobus pubblici soltanto per avere il video da condividere in rete. Fa figo. Fa moda. Lo vedono un sacco di altri coetanei e anche loro pensano che sia normale fare così. Come è normale, ti dicono, girare con un coltello. Come è normale, ti dicono, trovare una pistola. E usarla.
Micol Chessa ha 21 anni. Tre anni fa, a Milano, è entrata in una farmacia con una pistola in pugno per fare una rapina insieme a due suoi coetanei. È stata a San Vittore. Poi ha fatto tre anni ai domiciliari. «Per chi cresce in certi quartieri» mi ha raccontato, «è più facile trovare una pistola che un lavoro». A Umbertide, provincia di Perugia, in quella che una volta era la provincia italiana più serena e tranquilla, ci sono video di ragazzini che salgono sui treni pistola in pugno. Sparano. Seminano il terrore. E naturalmente filmano tutto. C’era una volta l’Umbria oasi di pace. Ora sembra di vedere il Bronx.
Quello che colpisce delle cosiddette baby gang è che non si limitano alle periferie delle grandi città, come un tempo. Macché. Conquistano il cuore delle città. Il cuore di Milano. Il cuore di Roma. E poi le città della provincia, da Ancona a Parma, e poi via via i centri minori, Caorle, Umbertide, Monselice. Quello che colpisce delle cosiddette baby gang è che sono formate da ragazzini sempre più giovani, a volte anche solo 10 o 11 anni, e sempre più violenti. E poi da ragazze. «Noi tiriamo cartelle in faccia», raccontano le fanciulle davanti ai microfoni. Senza pudore.È diventato virale la rissa di due giovanissime a Sassari, fuori da scuola: una ha calzato un tirapugno e ha spaccato la faccia all’altra. La rissa è pure femmina. Senza pietà.
Adesso tutti si sono accorti che esiste il problema delle cosiddette baby gang. Dico cosiddette perché (mi par di averlo già spiegato) il termine non mi piace. Mi sembra troppo dolce. Chiamiamoli nuovi vandali. O, se preferite, delinquenti. Ogni notte una rissa, ogni sabato sera accoltellamenti. Il ministro dell’Interno corre a Milano, ma non combina niente. Il prefetto di Padova dirama una lista di mille minori a tutti i comuni: state attenti, questi sono pericolosi. La Questura di Bologna fotografa i ragazzi per strada per cercare di prevenire incidenti. L’impressione è di essere seduti su una bomba che esplode. Non è più un problema di banlieu. È un problema di città fuori controllo. Di ordine perduto. A Ghedi un barista vessato da un gruppo di giovani violenti ha trovato il coraggio, dopo vari pestaggi, di denunciare tutto in televisione. Sono intervenute le forze dell’ordine? No, gli hanno bruciato il locale.
Abbiamo lasciato crescere una generazione sbandata. In un anno sono stati denunciati 20 mila minori. Il 46 per cento sono stranieri. Frutto di un’integrazione mai riuscita, certo. Ma anche frutto di una violenza cresciuta a poco poco come stile di vita. Basta ascoltare le canzoni dei loro amati rapper. «Arma in testa finirai al cimitero / Arma contro il direttore / sto mirando dritto al cuore / Carico il fucile, scarico il fucile / Li faccio fuori troppo facile», canta Baby Gang. Quel brano si chiama Rapina. Baby Gang è finito sotto accusa per averle anche fatte le rapine, oltre che cantate. Nei video di questi rapper ci sono sempre pistole e lame in bella evidenza. La violenza è la colonna sonora delle nuove generazioni.
Poi certo c’è l’abbandono di questi due anni. La pandemia ha reso più fragili i rapporti con la scuola, ha cancellato le relazioni sociali, ha ridotto le attività sportive e ricreative. I ragazzi sono rimasti abbandonati a loro stessi. E quest’esplosione senza pari è figlia anche di quell’abbandono. Però mi ha colpito Micol, la ragazza con la pistola, quando mi ha detto: «Quel giorno in quella farmacia ho sbagliato io. Tutto il resto conta fino a un certo punto». La responsabilità individuale, giusto. Allora le ho chiesto se si rendeva conto, mentre rapinava la farmacia, che stava facendo una cosa sbagliata. E lei mi ha risposto: «In quel momento no». E quando se ne è accorta? «Quando mi hanno arrestata». Semplice no? È il castigo che fa capire l’errore. E forse, alla fine, la strada per uscire dalla violenza quotidiana potrebbe essere proprio quella parola antica, ormai desueta. Vi ricordate quando le mamme dicevano: se non fai il bravo vai in castigo? Ecco oggi il problema è tutto qui: troppi non fanno i bravi. Eppure nessuno va mai in castigo. n
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