Home » Attualità » Opinioni » Hirsi Ali: «Tanti leader europei non vogliono vedere il fondamentalismo islamico»

Hirsi Ali: «Tanti leader europei non vogliono vedere il fondamentalismo islamico»

Hirsi Ali: «Tanti leader europei non vogliono vedere il fondamentalismo islamico»

La critica alle debolezze del nostro continente verso l’immigrazione, ma anche agli eccessi del #MeToo e del «politicamente corretto». La scrittrice e attivista, in fuga da oltre 15 anni per una «fatwa» che la vuole punire con la morte, parla a Panorama.
E smonta i rassicuranti stereotipi occidentali.


Figlia di un leader politico islamico, sottoposta all’infibulazione, costretta a sposare uno sconosciuto, Ayaan Hirsi Ali è «la donna che visse tre volte». La sua prima vita la spende in Somalia fino ai 20 anni, seguendo i rigidi dettami dell’Islam radicale e del padre-padrone. La seconda inizia dopo le nozze combinate: spedita su un volo per il Canada per convivere con l’esponente di un potente clan somalo, approfitta di uno scalo tecnico per fuggire. In modo rocambolesco chiede e ottiene asilo in Olanda.

È il 1992 e l’Olanda di Maastricht rappresenta la patria delle libertà individuali. Qui Ayaan cambia cognome, perfeziona la lingua e s’iscrive all’università. Lascia il suo credo d’origine. Diventa attivista politica per la protezione dei diritti delle donne di religione islamica: documenta centinaia di casi di violenza fisica, incesti, abusi sessuali nella comunità musulmane. Viene minacciata di morte, il suo impegno ormai l’ha resa celebre. Nell’autunno 2004 scrive per il regista Theo van Gogh la sceneggiatura di Submission, un «corto» che descrive gli abusi subiti dalle donne nel mondo islamico. Il 2 novembre, Van Gogh viene sgozzato in un parco di Amsterdam da un fondamentalista islamico. Ayaan fugge negli Stati Uniti. Inizia la sua terza vita di intellettuale e scrittrice. Vive sotto protezione, ma continua a lottare contro l’oppressione della figura femminile nelle società islamiche.
Ne parla anche nel suo ultimo saggio, Prey: Immigration, Islam, and the Erosion of Women’s Rights, uscito in America il 9 febbraio. Per l’occasione Panorama l’ha incontrata.

Qual è dal suo punto di vista il rapporto dell’Europa con l’Islam radicale?
«Io sono una testimone diretta del fatto che numerosi leader politici e partiti dell’establishment continuano a negare volontariamente che vi siano dei pericoli legati in maniera diretta agli immigrati provenienti da Paesi musulmani, che invece è la ragione principale per cui l’integrazione in Europa sta fallendo. È una cosa sotto gli occhi di tutti, ma non la si vuole affrontare».

Perché lo negano?
Temono che le destre estreme e i populisti potrebbero conquistare più voti se l’opinione pubblica dibattesse di questo argomento. In realtà, è esattamente l’opposto: rifiutando di trattare questo tema, avvantaggiano proprio le destre, il cui ruolo diviene sempre più utile, perché sono le uniche realtà a parlare apertamente del fondamentalismo islamico».

Ci sono altre ragioni evidenti?
«Evidenti no, forse inconsapevoli. Gli europei si sentono responsabili del colonialismo e di orrori come l’Olocausto. Perciò, vogliono apparire diversi dal passato, desiderano mostrarsi buoni e accoglienti di fronte all’elettorato. Ma questo ha a che fare più con la vanità che con una vera leadership. Non si può correggere il passato rifiutando di guardare in faccia i problemi attuali. È una sorta
di Zeitgeist, uno «spirito del tempo»: molti leader oggi al potere sono stati sessantottini e risentono ancora di quella cultura relativistica e multiculturale. Non hanno altra filosofia o modelli di riferimento per gestire al meglio la questione islamica. Dell’islam hanno peraltro una conoscenza molto limitata, il che non giova affatto. Inoltre, multiculturalismo non può significare
tollerare l’intolleranza di altre culture».

Lei ha criticato molto la politica di accoglienza tedesca. Perché?
Trovo amaramente ironico che una delle decisioni che più hanno fatto danni alle donne europee sia stata presa proprio da una donna. Quando Angela Merkel e i suoi hanno permesso agli immigrati musulmani di venire in massa in Germania, si sono scordati di esigere da loro il rispetto e l’adozione dei valori di chi li stava accogliendo. Ma è responsabilità proprio dei governi europei assicurare che i migranti assimilino e rispettino le loro leggi e, in caso contrario, respingerli anche se la loro patria non è un luogo sicuro. Se tu come immigrato rifiuti i programmi d’integrazione e non sposi le leggi di chi ti ospita, dovresti semplicemente essere espulso. È l’approccio che stanno seguendo la Danimarca e l’Austria, e sta funzionando».

C’è anche un «problema nel problema», cioè il ruolo delle donne nell’islam, di cui lei parla diffusamente nel libro Prey.
«Le donne islamiche sono percepite come oggetti e questo punto dev’essere risolto anzitutto all’interno delle comunità islamiche. Sono molte le donne coraggiose in Arabia Saudita come in Iran, Marocco o Turchia che lottano contro la legge della Sharia: loro lottano per diritti che non hanno, mentre in Europa quei diritti sono già acquisiti. Così, portare l’hijab o il burka in Occidente diventa
più che altro una ragione politica: è un’ostentazione, è come camminare indossando un grande slogan politico».

Non per tutte è così.
«È vero. Molte donne islamiche subiscono l’influenza culturale del velo. Crescono con la filosofia della modestia, che vuole le ragazze divise in buone e cattive: quelle che indossano l’hijab e obbediscono al marito sono buone, quelle che non lo fanno sono cattive. In questo senso, chi indossa il velo intende comunicare che si è di fronte a una brava ragazza. Altre, infine, lo indossano perché ritengono che gli uomini non possano controllare il desiderio sessuale quando vedono una donna. E siccome non vogliono provocare il maschio, si coprono. Si capisce, dunque, il peso che ha l’educazione».

Come commenta le leggi sul divieto del velo integrale di Francia e Svizzera?
«I divieti per legge non possono essere la risposta. Serve un vero dibattito sul tema».

Lei vive in America, che ne pensa del femminismo occidentale e del #MeToo?
«Il movimento #MeToo è iniziato come una buona causa, quella di sentirsi al sicuro sul posto di lavoro. Ma poi si è rivelato inefficace per i veri diritti delle donne, come la lotta contro gli abusi sessuali. Ha fallito perché non ha parlato del modo di concepire la donna da parte di altre culture. Quando vedi la cantante Madonna indossare l’hijab o gruppi di ragazze che sostengono la Sharia manifestare insieme ai #MeToo, capisci che qualcosa non va. È tutto un po’ folle, soprattutto qui in America. Ma le femministe bianche d’Europa non sono da meno, quando sostengono che indossare il velo è una cosa buona. Non capisco affatto questo femminismo, perché non si occupa seriamente delle questioni cruciali».

Mentre della legge sul femminicidio italiana?
Se penso che serva una legge distinta per definire lo stesso crimine compiuto nei confronti di un uomo e contro una donna? Sì, lo penso. Perché ritengo un bene che le istituzioni e la giustizia si adattino sempre al sistema criminale in vigore nella società che si trovano a dover regolamentare. Oggi in Europa c’è una nuova situazione da fronteggiare ed è legata agli immigrati musulmani, che sempre più spesso commettono atti contro le donne e indirizzano offese contro di loro».

Lo fanno anche gli europei non musulmani, però.
«Certamente, ma bisogna comprendere che in molti Paesi musulmani simili crimini non sono percepiti come tali: certi valori maschilisti per cui la donna è sottomessa all’uomo rappresentano un costume consolidato. È questo il piano su cui occorre confrontarsi. Non tutti i somali, sauditi o pakistani immigrati in Europa capiscono che tagliare la testa a un insegnante perché ha offeso Maometto è qualcosa di sbagliato in assoluto. Pensano che vada bene uccidere in questo modo, proprio perché la Sharia lo ammette in determinate occasioni».

È questa la vera sfida che attende il Vecchio continente?
«È una sfida culturale e politica. Ancora oggi i vostri leader non intendono parlare del fatto che molti musulmani ritengono la Sharia superiore alle leggi nazionali. Però se non si capisce questo, non si centra il problema. E poi ci domandiamo perché abbiano commesso crimini odiosi come la strage di Charlie Hebdo, nel 2015. Ma le leadership europee si ostinano a rimuovere il problema».

In nome di cosa?
«In nome soltanto del politicamente corretto, che è la grande malattia dell’Europa. Perché il politicamente corretto va bene, ma non può valere sempre».

© Riproduzione Riservata