Non puoi pensare di vendere un’auto elettrica se prima non consenti a chi la possiede di ricaricarla senza procedere a una caccia al tesoro per trovare le colonnine.
Un amico, titolare di una concessionaria d’auto, durante le feste di Natale mi ha prestato un modello elettrico che aveva in esposizione. Non dirò il marchio della vettura per non fare pubblicità alla casa costruttrice, in positivo o in negativo. Tuttavia, devo ammettere che guidare una macchina elettrica è un assoluto piacere. Nessun rumore, nessuna emissione, il cruscotto che pare quello di un’astronave. Per chi come me ha avuto a che fare con i vecchi modelli diesel, quelli di quarant’anni fa, che d’inverno dovevi accendere un quarto d’ora prima di partire, per scaldarli, e che una volta partiti si lasciavano dietro una nuvola di fumo scuro e puzzolente, salire su un’auto elettrica è come accomodarsi nel futuro. Non parlo delle prestazioni, che ovviamente non sono eguagliabili a quelle di un motore termico. Quando si schiaccia l’acceleratore, la vettura elettrica parte a razzo, senza strappi, e in pochi istanti raggiunge la velocità di crociera. Sì, un fulmine, a bordo del quale si sta seduti come in un salotto, perché togliere pistoni e serbatoi di olio e di liquidi di raffreddamento (nel cofano di un’auto che si ricarica con la corrente non c’è nulla di tutto questo) consente di far spazio per il guidatore e i passeggeri, creando un abitacolo ancora più confortevole.
Tuttavia, il piacere di guidare una vettura elettrica si ferma qui perché poi, una volta avviato il motore, si deve fare i conti con la realtà. Che è bella e affascinante se il viaggio si limita alla città, che nel mio caso è Milano. Nel centro ci sono numerose colonnine per la ricarica e benché alcuni maleducati scambino l’area di sosta per un parcheggio, non è difficile trovare un posto dove fare il «pieno». Però, se si esce dall’area urbana e si deve percorrere un tratto in autostrada il discorso cambia. Non soltanto perché l’autonomia a disposizione comincia a ridursi rapidamente man mano che aumenta la velocità e quando si deve far ricorso ai tergicristalli e all’aria condizionata per eliminare l’appannamento dai vetri, ma perché durante il tragitto a pedaggio non si trova una colonnina. E come ricarica un povero cristiano se non c’è neppure una stazione a cui agganciarsi? È vero che alcuni alberghi si sono attrezzati, mettendo a disposizione dei clienti delle «wall box», cioè quelle scatole elettriche provviste di cavo, ma se nel viaggio non è previsto alcun soggiorno in hotel? Nel mio caso, essendomi spinto a meno di 100 chilometri da Milano, avevo previsto un rientro in giornata. Be’, non sto a dire: ho percorso il ritorno tenendo l’occhio sul tachimetro, per controllare la percentuale di carica della batteria, temendo a un certo momento di sentire l’auto perdere potenza e spegnersi, come un telefono che all’improvviso, quando ne hai più bisogno, ti abbandona.
Ecco, la mia esperienza con l’auto del futuro si ferma qui, a dover fare i conti con la realtà e con la mancanza di quelle che chiamiamo infrastrutture, problema endemico del nostro Paese. Così come non puoi immaginare uno sviluppo del turismo se in certe località non porti strade, linee ferroviarie ed aeroporti, allo stesso tempo non puoi pensare di vendere un’auto elettrica se prima non consenti a chi la possiede di ricaricarla senza procedere a una caccia al tesoro. Sarà per questo che, come spiega Guido Fontanelli nel servizio pubblicato a pag. 8, le vendite delle vetture plug-in languono? Probabilmente sì, ma forse c’è anche un altro motivo. Innanzitutto, la convenienza: se prima un «pieno» di elettricità costava un terzo rispetto a quello a benzina, oggi la crisi energetica ha ridotto i margini di vantaggio e dunque il consumatore si chiede perché pagare molto di più una vettura se poi non rientri nei costi quando viaggi. Non solo: la minaccia di alcuni Paesi di sospendere l’alimentazione destinata alle colonnine e alle «wall box» private in caso di sovraccarico della linea elettrica, per evitare di lasciare al buio famiglie e imprese, ha fatto il resto. Che senso ha comprare una vettura se poi la sua alimentazione è incerta e dipende da una decisione «politica» o industriale?
Ribadisco: viaggiare senza sentire il rombo del motore, ma potendo solo ascoltare la musica è magnifico, ma se il viaggio finisce a bordo strada perché non si sono fatti bene i calcoli sull’autonomia necessaria per arrivare a destinazione? Quando succede con l’auto a benzina, si cerca di arrivare a un distributore, ma se il distributore non c’è resta solo il carro attrezzi. Oppure resta un lusso che pochi possono permettersi, cioè una seconda o terza macchina. Ma a questo punto mi viene naturale una domanda: perché l’Europa ha deciso di accelerare la transizione, decretando la fine del motore termico in anticipo se non c’è ancora la possibilità di consentire un uso di massa dell’auto elettrica? Forse la risposta è più semplice di ciò che immaginiamo. Se negli anni Sessanta la macchina era considerata un prodotto di massa o per lo meno si preparava a diventare tale, l’auto del futuro è un bene di lusso, che pochi potranno permettersi. La Supercar è per un’élite, ecco perché a Bruxelles non si danno troppa pena per la mancanza delle stazioni di ricarica.
