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Mai fidarsi dei troppo buoni

Mai fidarsi dei troppo buoni

Il caso degli «interessi di famiglia» del deputato ivoriano è solo uno fra tanti: le cronache sono piene di sedicenti volontari e presunti paladini della solidarietà che procurano bene a sé stessi e molto male agli altri. Dubitare quindi di chi si mette in mostra. L’altruismo vero non fa notizia. Né tantomeno business.


Oriolo romano è un piccolo centro, poco più di tremila abitanti in provincia di Viterbo. Ci si conosce un po’ tutti, almeno di vista. Così quando lo scorso 31 ottobre in paese è arrivato un uomo che si è messo a chiedere soldi per il Progetto per la vita, associazione a favore degli operatori clown negli ospedali pediatrici, qualcuno si è insospettito. Quel signore sarà davvero un buono? Macché: era un finto buono. In altre parole un truffatore. I carabinieri ci hanno messo pochi minuti per scoprire la verità: l’associazione non era mai esistita, il materiale distribuito era tutto falso, e il finto buono era in realtà un pregiudicato, con numerosi precedenti per truffa.

Pochi giorni dopo, lo scorso 13 novembre, a La Spezia, in pieno centro storico, si sono presentati due giovani, di 23 e 28 anni. Chiedevano solidarietà per un’associazione di disabili, particolarmente sensibile ai problemi dei non udenti. Buoni? Macché: finti buoni. Cioè truffatori. Anche qui ci è voluto poco a dimostrare che l’associazione non era mai esistita e i soldi finivano non alle persone in difficoltà ma in tasca ai finti buoni. Pochi giorni dopo, il 21 novembre, a lanciare l’allarme è stato il parroco di Botticino (Brescia). «Ho sentito che molte persone si presentano nelle case come volontari dell’oratorio per chiedere aiuto: sappiate che non li abbiamo mandati noi». Buoni? No, finti buoni. Cioè truffatori. Erano gli stessi, hanno scoperto i carabinieri, che si presentavano come tecnici del gas per derubare gli anziani.

Attenti ai buoni. Non ci sono, infatti, solo gli eclatanti casi nazionali, come quello in cui è coinvolto Aboubakar Soumahoro, deputato di Alleanza verdi e sinistra, che oggi si trova a dover giustificare affannosamente di non aver visto sfruttamento e maltrattamenti nelle cooperative gestite da moglie e suocera. O come quello di Mimmo Lucano, il sindaco santificato dalla sinistra per la gestione dell’accoglienza nel suo «modello Riace», e poi condannato dai giudici in primo grado a 13 anni di carcere per associazione a delinquere, peculato, truffa, abuso d’ufficio e falso in atto pubblico.

Ci sono tanti casi, anche più piccoli, diffusi sul territorio, in cui dietro la maschera dei finti buoni si nascondono veri cattivi, tutti impegnati a dimostrare il vecchio motto di George Bernard Shaw: è vero che i ricchi fanno la beneficenza, ma mai quanto la beneficenza fa ricchi. Tutte le truffe e le malversazioni sono odiose. Ma quelle che si nascondono dietro la solidarietà sono particolarmente urticanti perché non bruciano solo soldi. Bruciano anche la buona fede di tante persone che generose lo sono davvero. Nel febbraio scorso, scoppiata la guerra in Ucraina, moltissimi italiani si sono mobilitati per aiutare e accogliere i profughi. Ma subito si sono attivati anche gli sciacalli: il sindaco dell’Aquila ha immediatamente denunciato la presenza di malintenzionati che si spacciavano come operatori del Comune per raccogliere fondi in modo farlocco. Il sindaco di Piacenza ha segnalato che anche in Emilia si stava usando la stessa tecnica. A Ostia un avvocato ha raccolto una decina di denunce per truffe solo nella prima settimana di guerra.

Significa che non bisogna donare? No, significa che bisogna stare attenti ai buoni. Perché spesso sono i più cattivi. Nel campo dell’accoglienza, purtroppo, c’è una storia infinita di paladini dell’integrazione che in realtà hanno pensato soltanto a integrare i loro guadagni. Da Stefano Mugnaini della Multicons di Montelupo Fiorentino a Simone Borile della Ecofficina di Padova, da Paolo Di Donato l’uomo con la Ferrari di Malaventum (Benevento) all’ex installatore di impianti idraulici Pasquale Cirella, che gestiva i centri in provincia di Napoli con la preziosa collaborazione di Miss Paesi Vesuviani, già reginetta di Fette di Sole su Telecapri. Non tutti erano buoni come si mostravano. Anche se alcuni per sembrare ancora più buoni vestivano persino la tonaca.

Come don Edoardo Scordio delle Misericordie di Capo Rizzuto che gestiva i centri su cui faceva affari il clan Arena. Come don Sergio Librizzi che gestiva i centri di Badia Grande e Salinagrande in Sicilia, condannato a 9 anni di carcere perché, oltre a non essere del tutto trasparente sui conti pubblici, abusava degli immigrati, chiedendo loro sesso in cambio dei permessi di soggiorno. O come padre Antonio Zanotti, il «frate dei miracoli», vincitore del Premio per la pace della Regione Lombardia, accusato di aver sottratto 2 milioni di euro destinati all’accoglienza per usarli a scopi personali (ha patteggiato una pena a quattro anni) e di aver molestato un immigrato ospite della comunità (il processo si terrà ad aprile). Al telefono diceva: «Sono un imprenditore e Dio mi ha mandato quelli di colore». Sottinteso: Dio mi ha mandato quelli di colore per farmi fare soldi senza scrupoli. Ma chi può dubitare di chi indossa la tonaca? Il frate è come Soumahoro quando fa il sindacalista dei braccianti: al di sopra di ogni sospetto. Vive nella presunzione di bontà. Uno lo guarda e pensa: di lui mi posso fidare. Ed è lì che s’infila l’inganno. Diceva Ennio Flaiano: attenti, tutti quelli che rubano devono far mostra di amare i bambini e temere Iddio.

A Milano, per esempio, c’era un’azienda modello, la StraBerry, una specie di fattoria delle fiabe, ecologica e innovativa, vincitrice dell’Oscar green della Coldiretti. A guidarla un giovane bocconiano, rampollo di una nobile famiglia siciliana, Guglielmo Stagno d’Alcontres. Nel maggio scorso è stato rinviato a giudizio per sfruttamento della manodopera: si è scoperto infatti che nella fattoria modello si rispettava l’ambiente ma si rispettavano un po’ di meno le persone. «Io maschio dominante, tu negro di merda», diceva Guglielmo agli immigrati. E poi con gli amici si giustificava: «Con loro serve il metodo tribale».

Attenti ai buoni, perché usano il metodo tribale. E la bontà per fare business. Mica solo con gli immigrati. Alla onlus «Suor Rosina La Grua» di Castelbuono, provincia di Palermo, per esempio, la «solidarietà sociale nei confronti dei deboli» era scritta persino nello statuto. I responsabili si riempivano la bocca di «aiuto ai bisognosi», «attenzione al prossimo», «presenza sul territorio» e «rete sociale». Poi sono stati scoperti a insultare e prendere a calci i disabili ospiti della struttura. «Coglione». «Testa di minchia». «Lurido e fituso». E giù botte. C’era una stanza, chiamata in modo beffardo «sala relax», che in realtà era una stanza delle torture. Il tutto, ovviamente, per fare soldi. «Passano il bancomat a nome di suor Rosina», dice al telefono una delle indagate, intercettata dai carabinieri. E poi si lamenta dell’avidità dei suoi complici: «Non hanno limiti quando mangiano. Sono dei porci…». Povera suor Rosina. E poveri bambini ospiti della Serinper di Aulla, Massa Carrara. Anche quella cooperativa aveva uno statuto che pareva un inno alla bontà. Si parlava di «tutela dei bambini», di «azioni di contrasto della povertà, del disagio, dello sfruttamento, della violenza fisica e psicologica» e di tanti altri meravigliosi principi. Peccato che due anni fa la cooperativa sia stata coinvolta in un’inchiesta per associazione a delinquere, frode e corruzione: per moltiplicare i guadagni, secondo i magistrati, i responsabili non avrebbero esitato a calpestare le leggi. Soprattutto non avrebbero esitato a calpestare i bambini. «Quelli non sono bambini sono bestie», diceva uno degli indagati nelle intercettazioni. E l’altro: «Andrebbero sciolti nell’acido».

Alla faccia dell’inno alla bontà. Mai fidarsi di chi si mette troppo in mostra, come ha insegnato il caso Soumahoro. Soprattutto quando si è di fronte a tragedie o fenomeni epocali, dove la solidarietà sembra quasi un obbligo. Negli Stati Uniti si è scoperto che una parte consistente dei fondi raccolti per l’11 settembre 2001 sono serviti a finanziare iniziative del tutto inutili. La grande campagna del governo italiano per aiutare i profughi della ex-Iugoslavia (missione Arcobaleno) si concluse con una vergogna nazionale: gli unici ad arricchirsi furono i mafiosi albanesi. E anche sul Covid non sono mancate le truffe. A Cremona, per dire, la colletta fu organizzata da Renato Crotti, uomo di fiducia del cavalier Giovanni Arvedi, il re dell’acciaio, un’istituzione in città. In poche settimane furono raccolti 4 milioni di euro. Usati per i malati? Macché: il «buonissimo» Crotti se li metteva in tasca. E li usava per corrompere minorenni. È stato arrestato nell’ottobre 2021 con l’accusa di pedofilia.

Che ci volete fare? Tanti, di malattie, ci muoiono. Ma tanti, invece, ci vivono benissimo. Hanna Dickinson, australiana di 24 anni, ha raccolto oltre 40 mila euro di donazioni dichiarandosi affetta da grave tumore. In realtà stava benissimo e voleva semplicemente avere soldi per spendere in feste e vacanze. Toni Standen, inglese di 29 anni, ha commosso il mondo raccontando la sua storia di malata terminale che aveva bisogno di soldi per realizzare il suo ultimo desiderio, sposare il marito prima della morte. È stata condannata per truffa. Si era inventata tutto. Nicole Elkabbas, 42 anni, pure lei inglese, ha raccolto 50 mila sterline dicendo che le servivano per acquistare un farmaco rivoluzionario che avrebbe potuto salvarla dal cancro alle ovaie. In realtà ha speso tutto in gioco d’azzardo.

Nei giorni scorsi a Padova è finita sotto accusa Chiara Girello, presidentessa di Team for Children, una onlus che raccoglieva fondi per aiutare i bimbi malati di tumore: avrebbe usato quei soldi per viaggi, spese personali, aiuti ai familiari e creme di bellezza. Per amor del cielo non parlatemi di virtù s’intitolava un libretto del filosofo Vittorio Mathieu. I pericoli della solidarietà era il titolo di un libro di Sergio Ricossa. Le virtù dell’egoismo era quello di un saggio di Any Rand, in cui teorizzava che «dall’etica altruista derivano immoralità e ingiustizia cronica».

Il caso Soumahoro sembra confermarlo: il leader della bontà, presentato sui settimanali come simbolo stesso dell’essere uomini, non era così buono. Anzi nascondeva dietro la facciata dell’eroe lati oscuri e ipocrisie. Come tanti prima di lui, dopo di lui e accanto a lui. Denunciarli è d’obbligo. Ma denunciarli significa smettere di credere alla bontà? No, significa smettere di credere a quelli messi sul piedistallo della bontà. Perché la vera bontà non ha bisogno di piedistalli. Non fa notizia. Non cerca le luci della ribalta. E nemmeno, che ci crediate o no, un posto da deputato.

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