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Appendino: l’arte della fuga (a Roma)

Appendino: l’arte della fuga (a Roma)

La prima cittadina di Torino non ha i numeri per la rielezione. La sua giunta perde i pezzi e la città è immobile. Il passo indietro di Luigi Di Maio potrebbe ora favorire proprio lei. Che punta dritta dritta alla capitale.


A soli 35 anni, Chiara Appendino ha già il talento di certi politici consumati che non si fanno cogliere impreparati di fronte a nessuno. «Carissimo!» è il suo saluto standard quando incontra qualcuno per le strade e nei salotti di Torino. Seguono un paio di domande e dalle due o tre cose che le si dice ecco che la sindaca, finalmente, ti riconosce e ti colloca. Già, collocare e collocarsi: un’arte.

Dopo tre anni e mezzo a Palazzo di Città, l’ex barricadera grillina che denunciava il «sistema Torino», costruito su un rapporto soffocante tra centrosinistra, banche, industriali locali e mondo della cultura, e cementato negli anni dalle famose porte girevoli (indimenticabile Sergio Chiamparino prima sindaco, poi presidente della Compagnia di Sanpaolo e poi della Regione), oggi può pienamente dirsi parte di quella palude. E con le logiche di quel sistema, la spilungona Chiarabella ora costruisce il proprio futuro personale. Lontano dal Piemonte.

Negli ultimi giorni la sua maggioranza ha perso pezzi e la sindaca governa con soli tre voti di scarto, compreso il proprio. Impensabile ricandidarsi, l’anno prossimo, vista anche la crisi del Movimento 5 stelle nei sondaggi. E allora Appendino per le elezioni cerca l’abbraccio con il Pd, tenta di individuare come successore una figura «tecnica» pescando dal solito Politecnico o dall’Unione industriali, e poi pianifica lo sbarco a Roma come leader nazionale. Con l’appoggio di Davide Casaleggio e Luigi Di Maio, perché il declino dell’ex capo politico del Movimento le apre la strada. E il paragone con Virginia Raggi gliela cosparge di petali di rosa.

Non è clientelare, la ragazzona che prima di mandare a casa un politico navigato come Piero Fassino si era fatta le ossa nell’ufficio marketing dell’amata Juventus. Figlia di Domenico, un pezzo grosso di quell’Unione industriali che cinque anni fa la sostenne e la sdoganò con sommo dolore del Pd, Appendino è un raro caso di primo cittadino che anziché fare incetta di consiglieri comunali in crisi di coscienza, si perde i pezzi per strada. L’ultimo è stato un ex fedelissimo come Aldo Curatella, che il 2 gennaio è passato dai Cinque stelle al gruppo Misto denunciando un’amministrazione basata su «personalismi, interessi personali o, peggio ancora, privati». Si tratta del terzo grillino che se ne va e ora la maggioranza conta solo più su 22 voti contro i 19 delle opposizioni. E un voto è quello della sindaca.

I fuggiaschi lamentano il tradimento della carica rivoluzionaria che portò il Movimento a conquistare Palazzo Civico, ma basta guardare che cosa è successo con il governo delle politiche culturali per dover ammettere che Appendino si è accomodata, fin da subito, su quei divanetti rossi che affermava di voler ribaltare come crespelle alla fonduta. In una città che dopo il tradimento della Fiat ha deciso di puntare su cibo, turismo e cultura, il bancomat pubblico di eventi e manifestazioni si chiama Fondazione Cultura, da sempre feudo del Pd.

In campagna elettorale, nel 2016, Appendino ne promise la chiusura. Agli atti, ci sono tante interrogazioni consiliari dei Cinque stelle, compresa una firmata il 28 novembre 2013 con Vittorio Bertola (scavalcato nella corsa a sindaco e oggi suo acerrimo nemico), in cui si denunciano consulenze allegre e il ruolo straripante del segretario generale Angela La Rotella, con il suo stipendio da «circa 100 mila euro annui». Preso il posto di Fassino, Chiarabella si è resa conto che senza la Fondazione non avrebbe organizzato neppure il festival del gianduiotto e a settembre del 2016 ha frenato: «Avvieremo il processo che porterà alla chiusura della Fondazione per la Cultura, ma lo faremo con i tempi necessari a non creare danni o rendere impraticabili progetti già avviati».

Passati tre anni abbondanti, la Fondazione è sempre lì, e La Rotella anche. Non solo, ma se si vuole rappresentare plasticamente la piena immersione dell’Appendino nel «sistema Torino», basta pensare che le sue tre amiche migliori sono proprio La Rotella, l’industriale Licia Mattioli (in corsa per Confindustria nazionale) ed Evelina Christillin, presidente del Museo Egizio, bene introdotta nella famiglia Agnelli-Elkann e moglie di Gabriele Galateri di Genola, presidente delle Generali. E a proposito di Fiat, perso perfino il Salone dell’auto, Torino rischia di perdere anche l’auto stessa, specie dopo la fusione con i francesi di Psa. E se si cerca traccia di prese di posizione della sindaca sul delicato tema, si arriva a una dozzina scarsa di dichiarazioni e tutte simili a quelle entusiastiche di Fassino, che però almeno è presidente dell’Associazione parlamentare di amicizia Italia-Francia. Quando è stata annunciata la fusione con Peugeot, affidata a un noto tagliatore di teste come Carlos Tavares e con tutta Mirafiori che trema, Appendino ha fatto sapere di aver parlato al telefono con Pietro Gorlier, responsabile delle attività europee di Fca, ricevendo «garanzie sul mantenimento del piano di investimenti e sulla tutela dei livelli occupazionali per gli stabilimenti di Torino» (18 dicembre 2019). Funestati dalla cassa integrazione.

Ma ora la sindaca ha ben altro per la testa. Una sua rielezione è improbabile per varie ragioni. Intanto ha fatto due mandati in consiglio comunale e per le regole grilline non sarebbe ricandidabile. Poi si è cucita addosso una fama di «Madame Non», con un elenco che spazia dalla Tav alle Olimpiadi invernali, passando per la movida (che combatte in ogni modo chiudendo locali e vietando tutto) ai fuochi d’artificio. I servizi, specie se paragonati a Roma, più o meno funzionano. La linea 2 della metro è un fantasma, ma molte colpe sono del ritardo governativo sugli stanziamenti. Anche a Torino vanno a fuoco gli autobus, però nessuno si fa male. La Ztl si estende a macchia d’olio, le strisce blu per i residenti sono aumentate del 150 per cento in un anno, la tassa sui rifiuti è salita del 40 per cento nell’ultimo anno.

Le politiche sociali, a cominciare dalla gestione di immigrati e nomadi, sono prontamente subappaltate alle consuete cooperative del giro rosso. E all’anagrafe servono anche sette mesi per emettere una carta d’identità: un successo che si deve all’ex assessore Paola Pisano, raccomandata da Appendino a Di Maio come ministro dell’Innovazione. Gli amici dicono che la sindaca sia stata frenata anche dallo shock di essersi trovata sotto processo per i fatti della notte del 3 giugno 2017, sfortunata finale di Champions della Juve, in cui un’ondata di panico tra la folla accalcata in piazza San Carlo causò 1.525 feriti e la morte di due donne. Appendino ha chiesto il rito abbreviato, ma politicamente commise un errore clamoroso: nelle prime 72 ore cercò un capro espiatorio, tra prefettura, polizia e uffici comunali, invece di fare una scelta di alto rango e assumersi la responsabilità politica della tragedia. E si è isolata nelle istituzioni.

Maurizio Marrone, oggi capogruppo di Fratelli d’Italia in Regione Piemonte, ha fatto cinque anni di opposizione a Fassino come Appendino e non ha dubbi: «A Torino, con la sinistra non c’era una visione politica e strategica della città, c’era un’amministrazione col fiato corto, ma abbastanza efficiente sull’ordinario». E con la sindaca grillina? «Con l’Appendino, non c’è neppure questo», attacca Marrone. Poi, certo, per sbarcare a Roma con la benedizione di Di Maio e Davide Casaleggio, basta e avanza il confronto con la Raggi. Appendino sa muoversi con astuzia, è molto più moderata di quello che sembra e la sua città, almeno agli occhi del turista, si presenta come una piacevole sorpresa. Va anche detto che la Torino che ha ereditato da Fassino non è la Roma che la Raggi ha raccolto in stato comatoso dal Pd, e che il senso civico dei torinesi non farebbe sfigurare praticamente nessuno. Pronta per il grande salto nazionale, Appendino si porta dietro la simpatia di Sergio Mattarella, da lei difeso pubblicamente quando i colleghi del Movimento lo attaccavano, e un buon rapporto con Beppe Sala. E forse non è un caso se a Torino, alludendo alla fuga dei giovani oltre il Ticino, c’è chi la definisce «il miglior sindaco di Milano di sempre».

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