Home » Attualità » Opinioni » Andreotti, il paradosso della fragilità

Andreotti, il paradosso della fragilità

Andreotti, il paradosso della fragilità

A 10 anni dalla scomparsa

Ha rappresentato l’Italia della Prima Repubblica, debole ma coriacea. Di lui resta l’immagine del politico gentile, dalle battute geniali. Ma così sottilmente potente da incutere paura.


A dispetto della scoliosi che l’ha tormentato (motivando i caricaturisti con stimolo quasi magnetico) è stato la spina dorsale della Prima Repubblica. Giulio Andreotti con quell’ingobbirsi che è andato accentuandosi con l’età, con i poderosi mal di testa dei quali non faceva mistero e con quell’andatura a passetti brevi che davano l’idea del pestare su una sola piastrella, è la rappresentazione plastica del potere. Altro che fragilità – come il fisico, apparentemente sempre affaticato, avrebbe dovuto suggerire – ha concentrato su di sé cariche e responsabilità che l’hanno messo nella condizione di conoscere mezzo mondo e mettere in riga l’altra metà.

Anche a dieci anni dalla morte (6 maggio 2013, a 94 anni e 111 giorni) resta l’immagine inossidabile del democristiano che governa magistralmente e decide senza darlo troppo a vedere. Anzi: mimetizzandosi. Se n’era accorta Oriana Fallaci che, intervistandolo, confessava di essersi sentita a disagio al punto da averne paura. «Ma perché questa sensazione?» si era poi domandata. Impugnando penna e taccuino, aveva sfidato l’autoritarismo di Fidel Castro, l’intransigenza di Ruhollah Khomeini e la brutalità di Mu’ammar Gheddafi. Perché spaventarsi per un uomo che l’aveva ricevuta «con gentilezza squisita». Che mostrava un’arguzia capace di «farla ridere a gola spiegata». E che con quelle «spalle strette quanto quelle di un bambino» sembrava piuttosto meritevole di soccorso? «Solo più tardi», sempre parole della Fallaci «realizzai che la paura veniva proprio da queste cose e dalla forza che, dietro queste cose, si nascondeva». Per motivare: «Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga e vocione che abbaia perché il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo e intelligenza».

Ad Andreotti, certo, l’intelligenza non difettava al punto da permettersi il lusso di non esibirla. Con una sola eccezione: quando gli offrirono di presiedere l’Accademia degli studi ciceroniani. Lì, non si trattenne dall’ammettere che il latino rappresentava una sua passione e che era anche bravo nelle traduzioni dei classici. «Al liceo» convenne «si affrontano queste materie con la preoccupazione dell’esame e la noia per cose che sembrano inutili. A me, il latino piaceva e mi ci sono appassionato fin da quando stavo sui banchi di scuola. E ho continuato a coltivarlo anche dopo».

Per il resto, profilo minimalista con l’offerta di discorsi apparentemente modesti che, alla fine, si rivelavano ricchi di concretezza. Come capita alle persone che padroneggiano questioni e argomenti, poteva sbrigarsela ricorrendo a quella vena di umorismo che – nei decenni di fine millennio – gareggiava in arguzia solo con quella dell’avvocato Agnelli. Commenti estemporanei anche perfidi. Come quando rispose al giornalista che gli chiedeva le novità politiche. «Per il momento non ne ho» sibilò senza guardarlo «non ho ancora letto i quotidiani». Ma non mollava niente, senza badare a quanto fosse tortuosa la strada per arrivarci.

Non poneva pregiudiziali e, con la pazienza che non mette in conto il tempo necessario, si attrezzava per aggirare quelle altrui. Era convinto che l’arte della politica consistesse in mediazioni successive. Ogni piccolo passo, un piccolo risultato. Inutile rammaricarsi dei dettagli che occorreva lasciare per strada, se il risultato corrispondeva alla sostanza messa in preventivo. E mai mostrarsi sconfitti, se proprio non c’era spazio per indirizzare il dibattito verso le conclusioni desiderate. In questo senso, Andreotti ha rappresentato l’Italia: cattolica, conservatrice, bigotta, fragile e – contemporaneamente – coriacea come un muro di gomma.

Lui si presentava con voce educata che non rinunciava al tono flautato nemmeno nell’asprezza del confronto. Con le mani sempre intrecciate sul petto – dita lunghe e bianche come candele – nell’atteggiamento di chi deve impartire l’assoluzione. Se ne stava inghiottito in se stesso, con la testa quasi affogata nella camicia e, se gli serviva distrarre l’interlocutore, era in grado di pescare una citazione (perlopiù storica) che gli veniva suggerita dalla vita dei Papi o di qualcuno che gravitava intorno al Sacro collegio.

Giulio Andreotti si trovò a «comandare» anche quando di comandanti ce n’era già uno, e uno solo. Nel 1940, con il fascismo ancora saldo, dirigeva il giornale degli universitari e ne era il portavoce. L’anagrafe gli attribuiva 22 anni, anche se quel viso dove si faticava a scorgere i peli della barba non li dimostrava proprio. Il 30 luglio 1944, a Napoli, al congresso clandestino della Democrazia cristiana, venne eletto nel consiglio nazionale. Era il più giovane e, quasi per diritto, gli toccò il ruolo di reclutare, formare, selezionare e dirigere i gruppi giovanili del partito. Alla fine della guerra, fu designato per partecipare ai lavori della Consulta nazionale che doveva costruire le istituzioni destinate al governo in regime democratico. Fu eletto alla Costituente e Alcide De Gasperi lo scelse come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

Entrato nel governo del Paese non ne uscì più e se qualche volta accadde di dover rimanere in panchina (per poco tempo) c’erano i suoi uomini a rappresentarlo in posizioni comunque dominanti. Nel 1954: per la prima volta ministro. Gli affidarono le deleghe del dicastero delle Finanze. Nel 1960: ministro della Difesa a dispetto del fatto di non aver prestato servizio militare. Alla visita di leva, il medico del distretto – un certo Ricci – lo dichiarò inabile per deperimento organico che, sul referto, qualificò con migliore puntigliosità scientifica «oliogoemia». E, già che c’era, gli pronosticò sei-otto mesi di vita. «Perciò» la vendetta di Andreotti «quando mi trovai a capo dell’esercito mi ricordai di lui. Gli telefonai per dirgli che ero ancora vivo. Ma era morto lui».

Nel 1972: presidente del Consiglio, dopo il dicastero di Emilio Colombo e prima di Mariano Rumor. Nel 1983 – primo ministro Bettino Craxi – gli fu affidato il ministero degli Esteri dove le sue doti di diplomazia ebbero modo di mostrarsi appieno. Il Medio Oriente era una polveriera e lui riuscì a mantenersi in equilibrio fra politiche e fazioni di politica incompatibili fra loro. Ebbe il tempo di tifare per la Roma e promuovere una legge che impediva di assumere giocatori di calcio stranieri. Se si volevano fare crescere le società italiane, occorreva lasciare spazio ai giovani di casa nostra. Presiedette il comitato promotore e organizzatore delle Olimpiadi che si svolsero a Roma nel 1960. E resta da capire – fra tante attività politiche che richiedono applicazione – dove e come trovasse il tempo per scrivere un’ottantina di libri e una quantità sterminata di articoli, relazioni, lettere e approfondimenti per riviste specialistiche.

Sfiorò l’elezione a presidente della Repubblica (quando votarono Oscar Luigi Scalfaro) e di presidente del Senato (quando fu scelto Franco Marini). Tanto tempo nelle stanze e nei corridoi del potere finirono per cucirgli addosso l’immagine del Belzebù, come se le responsabilità dei guai che tormentavano l’Italia dipendessero da scelte sue o da decisioni che lui tollerava. Andreotti si barcamenò fra accuse e imputazioni con disinvoltura talvolta compiaciuta. «Il potere logora chi non ce l’ha» commentò come per dire che gli impegni di governo si portano dietro inconvenienti cui bisogna saper resistere. «Del resto» precisò in un’altra occasione «a parte le guerre puniche, mi viene attribuito di tutto». Quel «tutto» lo sfiorò, giusto ammaccandolo un po’. Solo il processo di Palermo – accusato di aver favorito la mafia – lo mise a dura prova. Il Procuratore di allora Giancarlo Caselli lo trascinò alla sbarra e lo tenne inchiodato per anni. Finì con l’assoluzione in primo grado (23 ottobre 1999) e il proscioglimento in appello (2 maggio 2003) ritenendo che i fatti prima del 1980 andavano considerati prescritti. Chiese che, sulla sua tomba, fosse indicato soltanto il giorno della nascita con quello della morte. «Le lapidi grondano di giudizi positivi al punto che uno potrebbe chiedersi: se qui sono tutti buoni, dov’è il cimitero dei cattivi?».

© Riproduzione Riservata