Settant’anni fa la Russia celebrava i funerali – imponenti – del dittatore sovietico (compianto anche dai nostri politici comunisti di allora). Come molti altri leader sovietici dopo di lui, incarnò l’idea di un potere assoluto. Capace di mandare a morire milioni di «avversari», veri o presunti
Come se si fosse trattato della morte di un imperatore, i funerali ebbero caratteristiche e dimensioni imponenti. La folla, attorno al feretro, si fece massa tanto che molte decine di persone morirono schiacciate nella calca. Iosif Dzugasvili Vissarionovic, per tutti Stalin (che significava «fatto d’acciaio»), attraversò la piazza Rossa di Mosca, per l’ultima volta, il 9 marzo 1953 (settant’anni fa). I leader di mezzo mondo – Togliatti e Nenni in Italia – pronunciarono discorsi di commemorazione con gli accenti dell’autentica apologia.
Poi la storia s’incaricò di ridimensionarne i giudizi. Anche se rimase la convinzione che i leader russi dovessero presentarsi come l’incarnazione di un potere assoluto. In fondo, Nikita Krusciov che, venendo dopo di lui, tentò di «destalinizzare» l’Urss, ottenne solo il risultato di sostituirvisi. A seguire, i vari Breznev, Andropov, Chernenko indossarono, senza fastidio, la grisaglia degli uomini onnipotenti. E, senza soluzione di continuità, nonostante il frantumarsi dell’Unione Sovietica, Vladimir Putin si è costruito il profilo del re con la corona. Stalin, a dispetto del nome, di «acciaio» aveva conservato solo la volontà.
Il piede sinistro sembrava come palmato per via delle dita che erano fuse insieme. Un braccio era più corto di cinque centimetri perché, a 10 anni, era stato investito da un cavallo. Era claudicante perché, in un altro incidente, finì con le gambe sotto le ruote di un carro. Per questo, alla visita di leva, fu scartato per difetti fisici che lo rendevano «inabile alle armi». Per il resto, si trovava con un corpo piagato dalle legnate del padre alcolizzato che, quando rientrava ubriaco, non tratteneva né violenza né soprusi. E se non lo picchiava lui, lo picchiavano la madre e i professori del seminario perché studiava solo quello che gli piaceva. Era indisciplinato.
Fin da allora ebbe a che fare con la Polizia. A quel tempo, la legge imponeva di parlare in russo. Le altre lingue (che si potrebbero definire regionali) dovevano essere bandite dalla cultura popolare. E lui – georgiano di Gori (distretto di Tiblisi) – voleva esprimesi con la parlata di casa sua. Scrisse anche composizioni in poesia che, senza suscitare commenti entusiastici, non sono disprezzate dalla critica. Ma per ogni uscita letteraria al di fuori del recinto del russo, erano punizioni. Che a quel tempo si confondevano con la tortura. Ma lui non era il tipo da mollare. Da ragazzo, in famiglia, lo chiamavano Soso – con un po’ di compassione – per evidenziare un’incertezza nel pronunciare le zeta. A scuola, presero a indicarlo con il nome di Koba, quello di un romanzesco eroe caucasico.
Nemmeno a lui fece difetto lo stimolo dell’avventura. Aderì al partito socialista rivoluzionario e, negli schedari delle autorità dove già compariva per le sue inquietudini da adolescente, finì come pericolo pubblico. Poi, il confino in Siberia, una rocambolesca evasione e l’attività di agitatore politico con istinti radicali, in tempi di perenne congiura. «Era il simbolo stesso della diffidenza» disse di lui il compagno di cella Semen Vereshchak: «Anche a giudicarlo con benevolenza, non si poteva che definirlo l’incarnazione del sotterfugio e della falsità».
Atteggiamento appropriato nel contesto di una vita clandestina dove il sospetto era spesso garanzia di sopravvivenza. Nell’organizzare i comitati rivoluzionari mostrò un’efficienza smisurata. Occorreva costruire delle «cellule» di partito che, come tasselli di un puzzle, avessero vita autonoma ma in compartimenti stagni, protette dalla segretezza e dal vincolo della solidarietà. Ma quelle caratteristiche che potevano rappresentare qualità nel sottobosco della vita sociale, diventavano negative se riferite ai vertici di uno Stato. Per questo Vladimir Ilicic Lenin, già malato e infermo nella sua casa, indirizzandosi ai membri del Comitato Centrale, li mise in guardia. «Il compagno Stalin ha concentrato nelle sue mani un immenso potere. Non sono sicuro che sappia servirsene con sufficiente prudenza» scrisse nel messaggio definito il suo «testamento» .
Ancora: «È grossolano e questo difetto, del tutto trascurabile fra comunisti di base, diventa intollerabile nella funzione di segretario generale. Per quel ruolo occorre un uomo che, distinguendosi da Stalin, aggiunga pazienza e maggiore tolleranza. Serve riguardo nei confronti dei compagni. E occorre presentarsi in modo meno capriccioso. Non sono piccolezze. O meglio: sono piccolezze che hanno importanza decisiva». Il documento non venne registrato ufficialmente e finì in un faldone di carte trascurabili. E, tuttavia, non fu necessario lasciar passare troppo tempo per rivalutarlo come profetico. Stalin non cambiò né carattere né atteggiamenti e si comportò come il signore assoluto che comandava i servi della gleba. La sua sovranità fu un dominio che, a tratti, esercitò con furore. Ogni dissenso era considerato un intollerabile oltraggio. Per finire nella lista dei «nemici del popolo» bastava uno sguardo non appropriato o un applauso che apparisse non entusiasticamente convinto.
Un regime cucito con il filo della paura. Osip Mandelstam, che pure fu tra gli uomini di punta del primo bolscevismo, finì al confino in Siberia per una poesia – paragonabile a quella del Giusti dedicata al «Re Travicello» – dove, nell’espressione «Montanaro del Cremlino» Stalin ritenne di riconoscere sé stesso. O Boris Pasternak, morto in miseria, isolato anche dai colleghi dell’Unione degli Scrittori per il manoscritto sul Dottor Živago che, pubblicato all’estero, gli fruttò il premio Nobel. Ma non ebbe la possibilità di ritirarlo. Nessun riguardo – forse comprensibilmente – per gli oppositori veri ma nemmeno nei confronti di chi aveva condiviso con lui i tormenti della repressione zarista. Rapido il passaggio da «amico» a «ex amico»; e – da lì – ad «avversario» da togliere di mezzo. Il primo fu probabilmente Sergeij Kirov che – secondo una tesi accusatoria – aveva avuto il torto di essere stato eletto nel comitato centrale con un voto quasi plebiscitario, al punto da mettere in ombra lo stesso Stalin.
L’attivista Leonid Nikolaev lo ammazzò a rivoltellate ma è forte il sospetto degli storici secondo cui il mandante fu proprio il leader del Cremlino. Il quale, prendendo a pretesto quell’attentato, diede avvio alla «prima purga» per sbarazzarsi degli avversari interni.I comunisti «nemici» sarebbero stati capeggiati da Lev Kamenev (direttore del giornale Pravda) e Gregorij Zonovev (presidente dell’Internazionale Comunista). A migliaia si trovarono davanti al plotone d’esecuzione o dispersi nei gulag. I numeri dicono che – fra quella prima purga e le altre che seguirono – i condannati a morte furono 340 mila. Qualcuno, come Lev Trockij, fu braccato dai sicari fino in Messico. E, certo, la Siberia inghiottì almeno tre milioni di persone, la maggior parte delle quali responsabili di una non entusiastica adesione allo stalinismo.
Tremenda fu la sua dittatura e «spaventosa», a dar retta alla figlia Svetlana, l’agonia. Nella notte del primo marzo, Stalin rimase vittima di un’emorragia celebrale mentre stava nella sua dacia di Kuntsevo ma, per un giorno e mezzo, non gli venne assicurata assistenza medica. Le guardie che stavano all’esterno sentirono dei rumori ma, si disse per la paura di disturbarlo, non ritennero d’intervenire. E per arrivare impiegarono un giorno e mezzo gli uomini della segreteria che, pure, erano stati allertati del fatto che «qualche cosa di grave» doveva essere accaduto. Lo trovarono bocconi, disteso a terra, sui tappeti. Rantolava e non era in grado di parlare. «A un certo momento» è il ricordo della figlia pubblicato in un pamphlet l’anno successivo «aprì gli occhi e li girò su coloro che gli stavano attorno. Fu uno sguardo terribile, forse folle o forse furibondo».
Morì la mattina del 5 marzo anche se la notizia venne ufficialmente comunicata alle 21.50 quando la notte aveva già inghiottito Mosca. Il corpo venne imbalsamato ed esposto nella Sala delle Colonne del Cremlino dove fu omaggiata da una folla sterminata. Si videro russi che piangevano. Credevano di aver perso la guida delle loro fortune. Certo, cordoglio non unanime. A Norilsk, nel cuore della Siberia assediata dal ghiaccio, Anatolij Bakanichev scontava una pena ai lavori forzati per «delitti politici» e, in quel momento, era impegnato a picconare la terra sul fondo di una buca per renderla ancora più profonda. «Sentii il mio compagno» ricordò anni dopo «che gridava: “Tolja, vieni fuori, il bastardo non c’è più!”».
