Viaggio, in versi e nella pittura, attraverso le rappresentazioni della passione che dà felicità o tormento. E, come mostrano Giotto e Magritte, Shakespeare ed Éluard, è semplicemente inevitabile.
Ciò che rende le amicizie indissolubili e raddoppia il loro fascino è un sentimento che manca all’amore, la sicurezza». È molto suggestiva e convincente questa citazione di Honoré de Balzac. E indica una condizione che abbiamo tutti certamente vissuto. Che poi sia universalmente vera è discutibile. In molti amori stabili c’è certamente anche il sentimento della sicurezza. È vero che una delle più autentiche poesie d’amore, il Sonetto XLVIII di William Shakespeare, manifesta proprio la forza decisiva del dubbio nel rendere l’amore motivo determinante di turbamento e di debolezza: «Con che animo, partendo, li ho rinchiusi, / i miei ninnoli, e con che serrature, / per trovarli, inusati, al mio solo uso, / da mani d’altri, cupide, al sicuro. / Ma tu che rendi men che nulla questi / gioielli se ti mostri, tu mio primo / conforto e ora mio cruccio, preda resti / d’ogni furfante che ti s’avvicina. / Non t’ho messo in alcuno scrigno, fuori / di quello in cui non sei, ben ch’io ti senta / qui pure: nell’asilo del mio cuore / dove tu giungi e parti a tuo talento. / Per essermi rubato, poi: se avviene / ch’è ladra anche virtù con un tal bene».
Potremmo dire: «Dubito ergo amo». Da qui la gelosia, il sospetto, il vano desiderio di possesso. Se in Shakespeare l’insicurezza è ragione di inquietudine amorosa, in Francesco Petrarca, da cui tutto origina, è una condizione essenziale per compiacersi del proprio stato, per vivere, con finta infelicità, l’indisponibilità di Laura, che esiste nella sua mente per garantirgli la felicità della solitudine: «Benedetto sia ’l giorno, et ’l mese, et l’anno, / et la stagione, e ’l tempo, et l’ora, e ’l punto, / e ’l bel paese, e ’l loco ov’io fui giunto / da ’duo begli occhi che legato m’hanno; / et benedetto il primo dolce affanno / ch’io ebbi ad esser con Amor congiunto, / et l’arco, et le saette ond’io fui punto, / et le piaghe che ’nfin al cor mi vanno. / Benedette le voci tante ch’io / chiamando il nome de mia donna ho sparte, / e i sospiri, et le lagrime, e ’l desio; / et benedette sian tutte le carte / ov’io fama l’acquisto, e ’l pensier mio, / ch’è sol di lei, sí ch’altra non v’ha parte».
Il poeta non si aspetta certo da Laura sicurezza, ma è compiaciuto della certezza di non poterla avere. Il mondo amoroso di Petrarca è solipsistico; quello di Shakespeare è ansioso, turbato, disturbato. Anche in Romeo e Giulietta la definizione dell’amore è legata all’ansia e all’inquietudine: «Amore è un fumo levato col fiato dei sospiri; purgato, è fuoco scintillante negli occhi degli amanti; turbato, un mare alimentato dalle loro lacrime. Che altro è esso? Una follia discreta quanto mai, fiele che strangola e dolcezza che sana». La premessa di Balzac, dunque, suggerisce la fragilità dell’amore e la consistenza, la durata, dell’amicizia che non è alterata da sentimenti esclusivi, di possesso. L’amore dà felicità e infelicità, l’amicizia dà conforto e rassicurazione. Una donna che se ne va è perduta, un uomo che si allontana lo ritroverai. L’amore ha la stessa debole consistenza della felicità secondo Eugenio Montale: «Felicità raggiunta, si cammina / per te sul fil di lama. / Agli occhi sei barlume che vacilla, / al piede, teso ghiaccio che s’incrina; / e dunque non ti tocchi chi più t’ama. / Se giungi sulle anime invase / di tristezza e le schiari, il tuo mattino / è dolce e turbatore come i nidi delle cimase. / Ma nulla paga il pianto del bambino / a cui fugge il pallone tra le case».
Sul mistero dell’amore e sulla chiarezza dell’amicizia anche nella pittura abbiamo testimonianze eloquenti. Tra le più inquietanti, certamente, Gli amanti di René Magritte, nelle diverse versioni di Canberra e del MoMa di New York. La coppia manifesta negli atti affettività, i corpi e le teste sono vicini, ma i volti sono coperti da un fazzoletto bianco che indica come, al di là degli atti, i due non si conoscono, non si vedono, sono estranei. Il dubbio estremo di Magritte è la misura dell’insicurezza come condizione essenziale del rapporto amoroso: la persona che ami ti può tradire e, a un certo punto, ti potrà sembrare così diversa da farti pensare di non conoscerla, di essere un’altra.
La posizione di Magritte è paradossale, estrema, e sembra rovesciare quella che più di tutte contraddice la riflessione originaria di Balzac. Vero è che l’amore è contristato da sospetti, gelosie, ansie, tradimenti; ma c’è una dimensione dell’amore fatta di protezione e di certezze. Ed è quella consacrata nel sacramento del matrimonio. Anche in esso non c’è certezza o sicurezza, ma Giotto, come nessuno, ne dà una rappresentazione che è sempre stata per me la più alta espressione dell’amore.
Gioacchino è uscito da Gerusalemme dopo essere stato cacciato dal Tempio per manifesta sterilità (e quindi non benedetto da Dio). E si ritira presso i pastori delle montagne. Mentre è lontano Anna, convinta di averlo perduto e di essere rimasta vedova, ha il miracoloso annuncio di un angelo apparso nella sua casa che le rivela che sarà presto madre. Nel frattempo, riparato fra i pastori, anche Gioacchino sogna un angelo, che lo rassicura perché Dio ha ascoltato le sue preghiere e lo esorta a tornare a casa dalla moglie. La scena fatale mostra l’incontro tra i due, che secondo lo Pseudo Matteo (3,5), avviene davanti alla Porta Aurea di Gerusalemme, dopo che entrambi sono stati avvisati dai messaggeri divini. Da sinistra, da fuori, proviene Gioacchino, accompagnato da un pastore; e da destra Anna, seguita da un corteo di donne amiche festanti, studiate accuratamente nelle acconciature e negli abiti. I due sposi si vengono incontro e, subito fuori dalla porta, all’altezza di una delle torri delle guardie (di cui sentiamo lo sguardo dietro le feritoie), su un ponticello, si scambiano un bacio decisivo che allude alla procreazione: infatti Anna risulta subito incinta.
L’architettura della porta aurea riproduce l’Arco di Augusto a Rimini, dove il pittore passò prima di arrivare a Padova per dipingere la Cappella degli Scrovegni. Grande è nell’episodio conclusivo è la naturalezza della figura del pastore che incede, per metà tagliato fuori dal campo visivo (a sottintendere uno spazio più grande di quello dipinto), e il bacio e l’abbraccio degli sposi ritrovati. Uniti formano una «piramide plastica» di grande forza espressiva. Fortemente simbolica è la donna avvolta in una veste nera, che si copre metà del volto col mantello: un’allusione, in contrasto con la rinnovata festa nunziale, alla condizione irreparabile di vedovanza.
Al momento dell’incontro i volti dei due sposi che si baciano sembrano diventare uno solo, con due occhi, un naso, una bocca; e nell’unirsi i due corpi nell’abbraccio danno segno di rassicurazione. Lei, tenendo stretta la testa di Gioacchino a sé con una mano sulla nuca e l’altra con la pressione leggerissima delle dita sulla barba. A sua volta lui avvicina Anna stringendola e ponendole una mano rassicurante sulla schiena. L’unione dei corpi, con la concordia dei sentimenti, si fortifica nella sicurezza che si danno l’un l’altro. Saranno uniti per sempre, così come la triste vedova, chiusa nel velo nero, si consumerà nella solitudine.
Ancora un poeta, Paul Éluard fa da controcanto alla rappresentazione amorosa di Giotto, oltre la solitudine, oltre la sofferenza, oltre l’insicurezza, quando si è più forti: «Non andremo più alla meta a uno a uno / ma a due a due. Conoscendoci / a due a due noi ci conosceremo / tutti, noi ci ameremo tutti e i nostri figli / rideranno della leggenda nera dove / piange un solitario». Sono tanti i volti dell’amore che vanno dall’assoluta distanza di Magritte alla compiuta protezione testimoniata da Giotto, ma è certo che senza la parola dei poeti e l’emozione visiva dei pittori la nostra vita sarebbe più povera.
