Oltre gli estremismi furbi di un mondo da «rinaturalizzare» per guarire i disastri causati dalla presenza umana esiste un pensiero che cerca una nuova armonia tra il rispetto ecologico e i valori irrinunciabili della civiltà.
Se si vuole capire davvero quale visione del mondo stia alla base della cosiddetta «rivoluzione ecologica» in cui, nostro malgrado, ci troviamo proiettati, occorre munirsi di coraggio e sfogliare il nuovo libro di Jeremy Rifkin, saggista americano e grande ispiratore delle politiche liberal che da qualche decina d’anni regolano il nostro presente. In realtà, basta leggere il titolo del volume per sentire le palpitazioni: L’età della resilienza. (Mondadori). Ripensare l’esistenza su una Terra che si rinaturalizza. A prima vista, potrebbe persino sembrare una piacevole prospettiva: maggiore attenzione alla natura, maggior equilibrio fra l’uomo e il creato… Ma qualcosa decisamente non torna.
Che sia così lo si intuisce già dall’utilizzo del termine «resilienza». Questa parola sta a indicare «la capacità di un materiale di assorbire energia se sottoposto a deformazione elastica», è presente in italiano da tempo immemore ma negli ultimi anni ha conosciuto una diffusione enorme, dovuta ovviamente all’abuso che ne fanno gli autori anglosassoni. Chi ti invita a essere «resiliente», molto spesso, ti sta menando per il naso: in pratica ti invita ad accogliere col sorriso le bastonate, ad assorbire gli urti senza spezzarti, anzi ricominciando da capo con altrettanto entusiasmo. Il resiliente, dunque, è prima di tutto colui che si fa vessare e, invece di rivoltarsi, prosegue obbediente senza scomporsi. Infatti Rifkin ci invita a essere resilienti spiegandoci che, in fondo, non c’è alternativa. Dobbiamo accettare un mutamento radicale del nostro stile di vita altrimenti andremo incontro alla catastrofe ecologica. Per prima cosa, dunque, occorre cambiare il punto di vista.
Noi esseri umani dobbiamo rassegnarci: non abbiamo nulla di speciale, ma siamo collocati allo stesso livello di tutti gli altri organismi viventi. Anzi, «tutte le creature viventi sono estensioni delle sfere della Terra». In pratica, non dobbiamo pensarci come persone autonome, ma come piccole parti di un grande organismo. Dobbiamo entrare a tutti gli effetti in quella che il grande studioso dei media Marshall McLuhan chiamava «era dell’Acquario», una età in cui «il pensiero dell’emisfero sinistro del cervello si atrofizzerà, immerso nello spazio acustico». Per McLuhan, l’emisfero sinistro del cervello dominava nell’epoca «visiva», un momento in cui l’uomo osservava il mondo dell’esterno, per misurarlo e regolarlo. Nella nuova era acustica, invece, l’uomo è come immerso in uno spazio da cui riceve mille sollecitazioni, è parte di un tutto più ampio, una sorta di «anima del mondo platonica».
Rifkin sembra riportarci a questo discorso, ma in maniera perversa: egli intende annullare l’originalità dell’essere umano, per renderlo sostanzialmente identico a pietre e insetti. Valiamo tanto quanto le piante, e non possiamo pretendere di più dei vegetali. A questo cambio di paradigma diciamo filosofico si aggiunge il cambio di paradigma economico: dal capitalismo predatore bisogna passare a una sorta di novello comunismo verde, che Rifkin chiama «paricrazia distributiva». Persino le elezioni dovrebbero lasciare spazio «ad assemblee attive di cittadini a guida paritaria dedita alla cura e gestione delle loro bioregioni». Eccoci in presenza del lacerante dilemma ideologico. In fondo non è male che ci si lasci alle spalle il neoliberismo feroce, che è effettivamente basato sullo sfruttamento radicale degli uomini e della natura, denunciato da Greta Thunberg. Ma l’alternativa che ci viene imposta (per altro senza averci prima consultati) è una sorta di dittatura verde molto simile al vecchio socialismo reale di stampo sovietico: impoverimento delle masse avvolto in una bella confezione di presunti diritti.
Come si può, allora, rompere la gabbia che ci hanno già costruito attorno? Esiste una posizione terza che consenta di conservare la natura, rispettandola, senza per questo annullare la specificità umana? Beh, sì, per fortuna esiste, ed è quella di uno straordinario ma ancora troppo poco conosciuto autore americano di nome Wendell Berry, di cui l’editore Aboca ha appena dato alle stampe un bel volume di saggi intitolato Il fuoco della fine del mondo. Classe 1934, grande romanziere (i suoi libri sono pubblicati in Italia da Lindau) e docente universitario, Berry vive da tempo immemore in una piccola fattoria del Kentucky. Da lì egli conduce una battaglia in difesa del mondo rurale, della sua semplicità e dei suoi equilibri. Difende e rispetta la terra, dunque la natura, tanto quanto rispetta l’essere umano e la sua lingua. E probabilmente inorridirebbe di fronte all’uso che si fa di termini quali resilienza, al modo in cui oggi si modifica il linguaggio per costringerci ad accettare una nuova realtà. Egli ha combattuto a lungo, non a caso, il dominio della «lingua del commercio» che tende a uniformare il pensiero.
«Saremo in grado di capire il mondo, e di conservare al suo interno noi stessi e i nostri valori», ha scritto, «soltanto fino a che possederemo un linguaggio pronto e reattivo nei suoi confronti». È stato sempre lui – anticipando il concetto oggi in voga di sovranità alimentare – a spiegare che «mangiare è un atto agricolo», invitando gli occidentali al rispetto della terra, la vera fonte del loro nutrimento. Il rispetto della terra, tuttavia, non può prescindere dal rispetto per gli uomini e le donne che la abitano. Uomini che hanno diritto di rimanere, appunto, legati alla loro terra, e dunque ai loro confini, alle loro famiglie, alle loro tradizioni. Cioè a tutto ciò che i rivoluzionari in stile Rifkin vogliono cancellare. «La nuova norma, quella per cui si lascia la propria casa da studenti e non vi si torna mai più a vivere, interrompe il vecchio processo di crescita e maturazione proprio nel punto in cui iniziava la ribellione, rischiando di chiudere il giovane in un’adolescenza congelata, senza consentirgli di ritrovare una forma di riconciliazione o amicizia con i propri genitori», scrive Berry nel saggio Il lavoro della cultura locale, contenuto nel volume. «Questa interposizione di ribellione e poi di distanze geografiche e lavorative, che separano figli e genitori, può contribuire a spiegare la particolare carica emotiva che nella nostra società produce tutto ciò che ha carattere d’innovazione. Si ha quasi l’impressione che ci sia, fra noi, sia una forma di odio per tutto ciò che è venuto prima, qualcosa che ricorda da vicino l’odio che un adolescente prova per le regole d’imposizione paterna o materna, e un piacere nel vederne l’obsolescenza che ha un sapore di vendetta».
L’ansia distruttrice che egli descrive è la stessa che anima i teorici della rivoluzione verde odierna, che altro non è se non un tentativo di resettare l’umanità, sottoponendola per altra via allo stesso sfruttamento cui la sottopone da decenni il capitalismo predatorio. Come si può fuggire dai due mostri che, apparentemente nemici, colpiscono uniti? Sottraendosi alla morsa e comprendendo che l’unica via d’uscita consiste nella conservazione della natura unità alla conservazione dell’umanità e delle tradizioni. Tutto il resto è brutale distopia.
