In 33 anni, i tedeschi hanno avuto solo quattro Cancellieri mentre gli italiani, nello stesso periodo, hanno visto succedersi 17 Presidenti del consiglio. Il motivo? I partiti non accettano l’alternanza e puntano a impedire la stabilità. Molto spesso per un tornaconto di «poltrone».
Un amico mi ha inviato un video in cui si confronta la durata dei governi, in Germania e in Italia. Dagli esecutivi guidati da Helmut Kohl tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta si passa a quello di Olaf Scholz, con in mezzo i sette anni in cui al Bundeskanzleramt c’era Gerhard Schröder e i 16 anni in cui c’è stata Angela Merkel. In 33 anni, i tedeschi hanno cioè avuto solo quattro cancellieri, con un’alternanza perfetta fra cristianodemocratici e socialdemocratici. Accompagnandolo con una musica da operetta, il video poi mostra l’elenco di presidenti del Consiglio che dal 1989 a oggi si sono succeduti alla guida del nostro Paese: in totale sono 17, ma se si contano le crisi di governo arriviamo a 21. Se si esclude Silvio Berlusconi, in pratica nessuno negli ultimi 33 anni è mai riuscito a restare a Palazzo Chigi per un’intera legislatura. Benché in molti siano stupiti per la sua caduta, il governo di Mario Draghi rientra dunque perfettamente nella media: un anno e mezzo scarso, destinato ad andare oltre i venti mesi se dopo le elezioni non sarà subito chiaro il risultato e si perderà tempo a formare il nuovo esecutivo.
Accadde nel 2018 quando, nonostante si fosse votato all’inizio di marzo, Giuseppe Conte si insediò il primo di giugno. Tre mesi esatti per avere un governo, perché in Parlamento i partiti non si decidevano a trovare un’intesa. Alla fine nacque l’esecutivo gialloverde, destinato un anno e pochi mesi dopo a lasciare il posto a quello giallorosso.
Ecco, se si vuole capire il problema italiano, bisogna partire da qui: dalla durata dei governi. Le forze politiche parlano spesso della necessità di assicurare stabilità al Paese, ma in realtà perseguono con determinazione l’instabilità, perché solo da essa possono trarre un qualche vantaggio. Quando nasce un governo, trenta o quaranta persone gioiscono, in quanto sono diventate ministro o sottosegretario, ma i resti dei partiti che siedono in Parlamento da quel momento cominciano a lavorare nella speranza che prima o poi venga il loro turno. Non si spiegano altrimenti le crisi che in 75 anni di Repubblica hanno portato non a nuove elezioni, ma a semplici rimpasti. Via uno, dentro un altro. Caduto un premier, eccone uno nuovo, dello stesso partito o della stessa coalizione. A metà anni Novanta, abbiamo avuto Romano Prodi e dopo di lui, con una maggioranza cui si aggiunse Clemente Mastella, è arrivato Massimo D’Alema, che però a un anno di distanza si è dimesso per risorgere con un’altra squadra. Anche questa è durata poco, così all’ex segretario dei Ds è subentrato Giuliano Amato, già ministro dell’Interno e dello stesso partito, con un orizzonte temporale di appena un anno. Quattro governi e tre premier in soli cinque anni. Ma ancor più clamoroso è ciò che è accaduto nelle ultime due legislature. Tra il 2013 e il 2018 abbiamo avuto tre presidenti del Consiglio, tutti dello stesso partito e con la stessa maggioranza. Mentre negli ultimi cinque anni alla guida del governo si sono avvicendati Giuseppe Conte e Mario Draghi, ma il primo ha cambiato maggioranza in corso d’opera, riuscendo a cancellare i decreti che lui stesso aveva sottoscritto.
La mia spiegazione circa il «turn over» di governi vi sembra eccessivamente semplicistica? Può essere, ma conoscendo l’animo umano e soprattutto quello della nostra classe politica, non credo di sbagliarmi di molto. Del resto, provate a leggere le cronache di questi giorni. I notisti spiegano che in vista delle elezioni e di un probabile successo straripante del centrodestra, a sinistra si danno da fare per guastarlo. Pur avendo governato nove anni su dieci, invece di accettare la logica dell’alternanza, la sinistra lavora per rendere instabile la legislatura. L’obiettivo non è, come sarebbe logico aspettarsi, convincere gli italiani a votare per i partiti progressisti, ma fare in modo che quelli di centrodestra non possano governare. Si punta a impedire la stabilità, perché dalla instabilità i partiti che stanno all’opposizione hanno tutto da guadagnare.
Non ci sono soltanto i ministeri come merce di scambio, ma migliaia di nomine, e più un esecutivo è instabile più per sopravvivere è disposto a barcamenarsi, trovando se occorre un’intesa con la controparte. Nella prima Repubblica, per definire il fenomeno si usò il termine «consociativismo». Be’, non è cambiato molto da allora. Anzi, forse la situazione è peggiorata, perché più le forze politiche sono deboli, più prevalgono i gruppi di pressione e gli interessi, che spesso sono all’interno della stessa maggioranza. Le scissioni, il trasformismo che porta a cambiare più volte partito in una legislatura, le crisi irragionevoli all’interno di una stessa forza politica sono il male italiano. Se abbiamo presidenti del Consiglio per ogni stagione, una ragione c’è e per evitare l’instabilità politica non basta prolungare la legislatura, come ritiene Sergio Mattarella, ma semmai serve proprio il contrario. Voi credete che se a ogni caduta di governo o a ogni scissione fosse stato obbligatorio tornare alle urne, avremmo avuto 17 premier in 33 anni? Io no.
