La famiglia Benetton, che gestisce Autostrade e che il governo Conte aveva promesso di cacciare dopo il crollo del Ponte Morandi, sta fianco a fianco con un ex deputato grillino nella gestione del tunnel sotto il Monte Bianco.
Tranne una colonna in cronaca, apparsa sul Corriere della Sera, sui giornali la notizia è stata praticamente ignorata. Niente di grave, intendiamoci, ma molto di significativo. Di che si tratta? Semplice, mentre infuriava la crisi di governo e ancora non si sapeva come si sarebbe risolta, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha piazzato un ex deputato dei 5 Stelle, già vice capo di gabinetto, al ministero dello Sviluppo economico retto da Giorgio Patuanelli, nel consiglio di amministrazione della Monte Bianco spa, ovvero della società che gestisce la parte italiana dell’omonimo tunnel in Val d’Aosta.
Il fatto è rilevante per almeno due aspetti, il primo – diciamo – politico e l’altro invece di opportunità. Comincio dal secondo. Non tutti sanno che la società che ha in concessione il traforo è a capitale misto, cioè pubblico-privato. La maggioranza delle azioni, pari al 51%, è nelle mani dei Benetton, il resto lo detiene lo Stato. Sì, l’odiatissima (dai 5 Stelle) famiglia che gestisce Autostrade, e che il governo Conte fino a che è rimasto in vita aveva promesso di cacciare dopo il crollo del Ponte Morandi, sta fianco a fianco con i rappresentanti del ministero dell’Economia nella gestione del tunnel sotto il Monte Bianco.
Cose che succedono, si dirà. Anomalie che non si possono sciogliere in un attimo, così come a oggi non si è sciolto, nonostante le molte accuse, il conflitto tra il gruppo veneto e lo Stato che tramite il ministero dell’Economia è proprietario della rete autostradale. Vero. Tuttavia, piazzare un ex deputato dei 5 Stelle nel consiglio di amministrazione di una società posseduta da quegli stessi Benetton che si vogliono cacciare da Autostrade è a dir poco sorprendente.
La politica ci ha abituato a scelte stupefacenti e per nulla coerenti, tuttavia ci sono alcuni profili di opportunità che sconsiglierebbero tanta disinvoltura, per di più se si fa parte di un movimento che, oltre a essersi intestato la battaglia contro la Tav, ovvero contro un tunnel in Val di Susa, poi ha inteso impugnare la bandiera contro i concessionari autostradali. Dichiarare guerra ai «magliari» e poi sedersi al loro fianco è uno spettacolo imprevisto perfino da noi, che pure facendo questo mestiere abbiamo visto tutto o quasi. Per di più, se il nuovo consigliere della società del traforo è lo stesso che da deputato dichiarava che le partecipate pubbliche, cioè dello Stato, «sono i poltronifici dei partiti».
Ciò detto, il problema non riguarda solo Giorgio Sorial, l’ex deputato nominato nel cda della Monte Bianco, ma le porte girevoli con cui i cittadini dei 5 Stelle (all’inizio per segnare la distanza dagli altri parlamentari si facevano chiamare così), una volta divenuti onorevoli escono dalla porta delle Camere per rientrare dalla finestra di un’azienda o di un incarico pubblico. Sorial è l’ultimo caso, ma di esempi ce ne sono anche altri: qualcuno riguarda ex parlamentari, qualche altro ex amministratori grillini. Per esempio, nello staff di Vito Crimi, attuale reggente dei 5 Stelle, ma nel passato governo viceministro dell’Interno, si poteva rintracciare Bruno Marton, con l’incarico di segretario particolare, ruolo che aveva già ricoperto in precedenza, quando però Crimi era sottosegretario con delega all’editoria. Stipendio: 75.000 euro lordi l’anno. Mica male per uno che in precedenza si occupava di riparare tv ed elettrodomestici.
Altri casi? Beh, il più clamoroso è quello di Filippo Nogarin, ex sindaco di Livorno trombato alle elezioni europee del 2019. Dopo aver perso il seggio, è stato sistemato come consigliere del ministro per i rapporti con il Parlamento, il pentastellato Federico D’Inca, ma anche Virginia Raggi ci ha messo del suo, nominandolo consulente al bilancio del Comune di Roma. L’elenco può continuare con una serie di «amici» del ministro degli Esteri, da Pietro Dettori, consigliere per le «relazioni con le forze politiche inerenti le attività istituzionali», a Carmine America, consulente per la «sicurezza e difesa», che l’anno scorso è stato promosso nel consiglio di amministrazione di Leonardo, un colosso pubblico nel settore militare e aerospaziale. Manca qualcuno? Sì, un amico di Giggino ai tempi del liceo: Dario De Falco, ex consigliere comunale di Pomigliano d’Arco, nel passato governo è entrato a far parte dello staff di Riccardo Fraccaro, sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri, ovviamente grillino.
Sì, Sorial è in buona compagnia e non è l’unico pentastellato che una volta lasciato l’incarico politico ne ha trovato uno pubblico, dunque di nomina politica. E a dire il vero, nella lista dei trombati e riciclati non si accompagna ai soli 5 Stelle, perché la corsa a dare una mano al collega onorevole rimasto senza poltrona è comune a tutti i partiti. Tuttavia, ciò che colpisce dei seguaci del Movimento è che ancora conservino nel Dna del loro gruppo il divieto del doppio mandato. La regola, imposta da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio agli inizi, avrebbe dovuto evitare la costituzione di un partito composto da professionisti della politica, decisi a occupare per la vita l’incarico ottenuto.
Purtroppo, storie come quella di Sorial, Marton e Nogarin raccontano che, una volta messo piede nel Palazzo, chiunque viene contagiato dal virus della politica e non è più disposto a tornare alla vita precedente, soprattutto se questa è fatta di televisori ed elettrodomestici da riparare. Dopo qualche anno in Parlamento, in Regione o in Comune, sono tutti esperti. Da onorevoli diventano consulenti e a coloro a cui va meglio, anche consiglieri. Naturalmente di amministrazione, con relativo gettone di presenza. Perché è vero che i grillini sono cittadini, ma mica fessi.