Ha solo 18 anni ed è già l’idolo pop della Generazione Z. Scrive le canzoni dettandole al cellulare, ma sta poco sui social e ai coetanei dice: «Il virtuale non fa bene. Meglio starne fuori».
La Billie Eilish italiana: è questa l’etichetta che Nahaze, 18enne italo inglese, si è vista affibbiare da tutti i magazine che hanno scritto finora di lei e della sua musica. «A dire la verità non è che mi riconosca così tanto in questo paragone» racconta a Panorama dalla sua casa di Matera, reduce dalla firma di un contratto con l’Elektra, la storica etichetta americana (Doors, Ac-Dc, Bruno Mars) che ha creduto da subito nel sound internazionale dei suoi brani, oltre che nella capacità di scrivere indifferentemente in italiano e in inglese. Al di là dei confronti con la collega superstar americana, Nahaze è, come Billie, l’incarnazione del sound di questo tempo e le sue canzoni hanno tutte le caratteristiche che servono per diventare la colonna sonora della Generazione Z.
«Mi piacciono le melodie pop tradizionali, ma al tempo stesso adoro contaminarle con gli ingredienti della cultura digitale» spiega prima di raccontare che le sue composizioni nascono ovunque. «Di notte, ma anche mentre cammino da sola per strada. Registro le intuizioni sullo smartphone e poi le trasformo in pezzi». Ecco, canzoni è la parola chiave degli artisti della generazione di Nahaze: «Non possiedo cd e nemmeno vinili, tranne quelli della collezione di mio padre. Ascolto tutto in streaming, “skippando” da un brano all’altro».
Nell’immaginario di Nahaze e dei suoi coetanei il concetto di album come insieme di brani legati da un filo comune e da una scrittura coerente è qualcosa di sideralmente distante. «Non so se e quando farò un intero album, però mi è molto chiaro quanta arte e bellezza possano essere racchiuse in un disco composto e pensato come un unicum. Proprio qualche giorno fa ho ascoltato per intero The dark side of the moon dei Pink Floyd. È stata un’esperienza fantastica e visionaria. Ho avvertito le emozioni e la commozione di chi ha suonato quei brani ricchi di sonorità stupende, ma anche di rumori d’ambiente catturati andando in giro per le strade con il registratore acceso. Negli anni Settanta c’erano una cura maniacale eccezionale e budget altissimi per incidere i dischi» sottolinea.
«Oggi si tende a privilegiare l’immagine, mettendo magari la musica un po’ in secondo piano, ma non è questo il mio approccio» sottolinea, prima di spiegare che la sua british side emerge chiaramente in Wasted, un brano legato al mood e alle atmosfere di Gloucester, In Inghilterra, dove ha trascorso molte estati in compagnia della nonna materna, Hazel, da cui ha preso il nome d’arte fondendolo con il suo vero nome, Nathalie. «Wasted parla del tempo e della sua percezione che negli ultimi mesi è stata stravolta dalla pandemia e dal lockdown. A un certo punto preparare la cena era diventato l’obiettivo di una giornata».
Oggi più che mai la musica è una questione di collaborazioni, di incontri con altri artisti, di featuring senza soluzione di continuità. Una contaminazione a tutto tondo che per Nahaze è sfociata nell’incontro con Achille Lauro in quello che al momento è il suo brano più popolare: Carillion. «Gli ho mandato dei provini e gli sono piaciuti. Ha anche partecipato al video del pezzo e il suo contributo a tutto il progetto Carillion è stato importante. Ha talento e sensibilità musicale e credo che susciti spesso controversie e polemiche perché ha il coraggio di essere quello che è. Fino in fondo» spiega Nahaze, che per l’ultima hit, Future, si è affidata invece a un trio di produttori italiani noti come Free Monkeys.
La cantante ha una presenza online discreta e i social li frequenta, come è ovvio che sia per una diciottenne del 2020, ma con una consapevolezza di fondo: «Tutti siamo più o meno assorbiti dallo smartphone, ma non bisogna dimenticare la vita reale. Un’immersione troppo profonda nel virtuale non fa bene. Bisogna avere la capacità di staccare, di tornare con i piedi per terra. Lo dico anche a me stessa. Non si può perennemente vivere con un filtro tra noi e il mondo».
Un tema, quello del filtro che separa da ciò che realmente avviene, che negli ultimi anni ha trasformato anche l’atmosfera dei concerti. «Non ho ancora una grande esperienza live, ma comprendo bene quanto possa essere fuorviante per un artista o un performer trovarsi di fronte a una platea di lucine accese. Lo show dovrebbe essere il momento dell’esaltazione del contatto diretto tra l’artista e i suoi fan, ma in realtà si tratta sempre più spesso di un rapporto a distanza mediato dall’obiettivo del telefono».
