Il procuratore di Palermo, Francesco Messineo, è stato un capo “debole”, “condizionato” dal suo vice, Antonio Ingroia?
Dipende. Se lo ipotizza “Panorama” è diffamazione. Se lo dice la prima commissione del Consiglio superiore della magistratura, competente per le azioni disciplinari e i trasferimenti d’ufficio dei colleghi magistrati, è una sana iniziativa a tutela dell’ordine giudiziario e naturalmente del cittadino. In pratica, è l’esercizio di un dovere.
I magistrati non guardano in faccia nessuno e non sbagliano (quasi) mai. Se sbagliano, a deciderlo possono essere solo collegi composti anche da magistrati. I giornalisti, invece, se indagano sui magistrati deragliando verso qualche critica (seppure basata su fatti che si rivelano tutt’altro che infondati) vanno castigati. Se ne deve dedurre che i magistrati sono i veri intoccabili di questo paese? Che non devono temere nessuno se non se stessi mentre i giornalisti, anche quando dipingono un quadro d’ambiente e sono giornalisti scomodi, politicamente scorretti, senza timori reverenziali, vengono trattati da delinquenti che gettano fango?
Sarebbe triste. Ma quale altra lezione dovremmo trarre dal caso Panorama-Messineo alla luce della procedura avviata nel Csm per “gestione debole” della Procura di Palermo?
Una gestione forse così debole da non garantire indipendenza, col corollario inquietante di Ingroia chiamato a spiegare se e perché abbia tenuto nel cassetto per cinque mesi le intercettazioni del suo capo con un manager coinvolto in un’inchiesta per usura. Ecco, noi non sappiamo se i sospetti del Csm siano fondati, ma nell’avanzarli e avviare la procedura di trasferimento per incompatibilità di Messineo, l’organo di autogoverno della magistratura è andato ben oltre l’affresco giornalistico. Eppure, nessuno rischierà la galera. Né chi punta l’indice, né il “puntato” che al massimo rischia di fare il giudice altrove.
E invece. Il direttore di “Panorama” Giorgio Mulè e l’autore dell’inchiesta del dicembre 2009 sulla Procura di Palermo, Andrea Marcenaro, insieme con il collaboratore Riccardo Arena, sono stati condannati al carcere (tra 8 mesi e un anno) senza neanche benefici e attenuanti. Su “Panorama” si era letto che “parlare di carisma” con Messineo è “francamente improprio”, trovandosi a capo di una procura “frantumata”, più che “divisa”. Una procura nella quale il capo è “tanto in ombra” che “dopo tutto non c’è da stupirsi dell’esistenza di un procuratore ombra”. Antonio Ingroia, per l’appunto. Sarebbe stato lui “il vero capo”, a detta dei detrattori di entrambi.
A ben vedere, per il Csm Messineo tanto non aveva carisma da risultare “debole”. E tanto la sua debolezza gravava sulla gestione dell’ufficio, traducendosi in deficit di circolazione delle informazioni e in “difetto di coordinamento”, da portare forse alla mancata cattura del super-latitante Matteo Messina Denaro. Una enormità detta dai componenti del Csm, ma che in bocca ai giornalisti di “Panorama” (i quali non sono arrivati a tanto) li avrebbe probabilmente esposti a conseguenze rovinose.
Sarebbe l’ora di dire basta ai due pesi e due misure. Alle bacchettate ai giornalisti non di sistema. Alla magistratura mondo a parte che giudica se stessa e non ammette critiche. Anche a tutela di un diritto sacrosanto: la libertà di stampa. O no?