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La grave dipendenza dalle medicine del gigante asiatico

La grave dipendenza 
dalle medicine 
del gigante asiatico

  • FARMACINA\1 Antivirali, vitamine, antibiotici o anche il semplice ibuprofene. Decine di questi rimedi non si possono più fare senza i componenti forniti dal Dragone. E le conseguenze potrebbero essere molto dolorose.
  • FARMACINA\2 Come ha fatto la Cina a guarire così presto?

  • FARMACINA\3 Il prezzo esagerato delle mascherine calmierate

Mal di testa, nevralgie? Una pillola potrebbe aiutare. Ma bisogna saperlo: è molto probabile che contenga un po’ di Cina. Ibuprofene o paracetamolo, ovvero i principi attivi usati da molti per alleviare questo tipo di fastidi, arrivano soltanto grazie a lei, la Grande Produttrice del mondo. Tessile, terre rare, tecnologia… Il Dragone ha conquistato fette di mercato sempre più consistenti in molti settori dell’economia globalizzata, ed è così anche per le medicine: la sua industria farmaceutica è cresciuta negli anni in modo esponenziale e si prevede che raggiungerà un valore di 162 miliardi di dollari nel 2023.

La brutta notizia? Che ne siamo dipendenti. In un modo o nell’altro entra nell’80 per cento delle medicine che usiamo. Sono caricati sui cargo a milioni di tonnellate estrogeni e progesterone, cure per il cancro, vitamine, aminoacidi, antitumorali, antivirali, farmaci cardiovascolari e antidepressivi… Il 60 per cento di tutto il paracetamolo europeo e il 50 dell’ibuprofene arriva da lì. Mentre dagli antibiotici dipendiamo addirittura al 90 per cento: per esempio, battericidi a largo spettro come tetracicline e amoxicillina (spesso usata per curare l’influenza stagionale), oppure particolari come la penicillina G benzatina utilizzata contro difterite, malattie reumatiche e sifilide, così in crescita in Italia.

Quell’antidolorifico nel nostro armadietto delle medicine, anche se non appare, potrebbe arrivare da Jingmen City o da Shanghai (rispettivamente sedi della Hubei Biocause Heilen Pharmaceutical e del Sinopharm Group: due nomi fra i tanti). In questo commercio è impegnato un esercito di ditte cinesi, 12.462, che nel 2019 hanno esportato quasi 5 milioni e mezzo di tonnellate di materie prime necessarie per «costruire» un farmaco (+15,56 per cento sul 2018), e 10 milioni di tonnellate di principi attivi (+8,83). Il commercio con l’Europa ha fruttato 9 miliardi e mezzo di dollari con un incremento del 14 per cento in un anno.

Non è un caso se il Parlamento europeo ha ufficializzato la nostra dipendenza. In luglio, la Commissione sanità ha chiesto di assicurare le scorte, coordinare le strategie sanitarie nazionali e soprattutto ripristinare la produzione locale di farmaci. In settembre ha poi approvato in seduta plenaria una risoluzione: «A causa della delocalizzazione della produzione, il 40 per cento dei medicinali finiti commercializzati nell’Unione proviene da Paesi terzi, il che si traduce in una perdita di indipendenza dell’Europa sul piano sanitario». E ancora: «La catena di approvvigionamento fa ricorso massiccio a subappaltatori all’esterno dell’Ue per la produzione delle materie prime in considerazione del costo del lavoro inferiore e della presenza di norme ambientali meno rigorose, facendo sì che dal 60 all’80 per cento dei principi attivi dei medicinali venga fabbricato al di fuori dell’Unione, segnatamente in Cina e in India». Ma quest’ultima dipende pesantemente da materie prime e intermedi cinesi.

Chiaramente la presa di coscienza è frutto della prima ondata di Covid-19, quando ogni giorno si è combattuto per il reperimento dei farmaci. In aprile l’Alleanza degli ospedali universitari europei ha avvertito che i reparti di terapia intensiva del continente rischiavano di finire anestetici, antibiotici, rilassanti muscolari e farmaci «off-label», cioè quelli utilizzati d’emergenza per indicazioni diverse da ciò per cui sono autorizzati.

Ma il tema delle carenze è saltato fuori, mai affrontato, ogni volta che c’è stata una qualche crisi. «Le carenze di medicinali sono aumentate in Europa di venti volte tra il 2008 e il 2018» ricorda Nathalie Colin-Oesterlé, relatrice del documento presentato al Parlamento europeo, «la nostra dipendenza dai paesi extracomunitari è stata messa a nudo dall’attuale pandemia. Non deve più succedere».

«L’importazione di materie prime e intermedi dai paesi asiatici, in particolare dalla Cina, è un punto critico del settore evidente da diversi anni, ma che si è acuito con la pandemia» conferma il presidente di Federchimica-Aschimfarma Paolo Russolo, che riconosce anche: «La situazione adesso sta migliorando, ma oggi non ci sono alternative all’importazione dall’Asia». «Durante la prima ondata ci sono stati due-tre mesi di panico sugli approvvigionamenti dalla Cina e anche se problemi adesso si presentano in misura minore dobbiamo reagire subito, non per rimediare all’oggi ma per il futuro» commenta anche Riccardo Anzuini, amministratore delegato di Trifarma, un’eccellenza italiana nel settore dei principi attivi. «Non possiamo pensare di ripristinare linee di produzione, di convertire industrie o addirittura crearle da zero, in poco tempo. Attrezzarci durante il Covid-19 è impossibile, ma abbiamo il dovere di farci trovare pronti per la prossima crisi internazionale». «Cogliamo la palla al balzo adesso, in tempi di pandemia e di grandi promesse di denaro europeo» chiosa Marcello Fumagalli, direttore generale della Cpa, Associazione italiana dei produttori di principi attivi ed intermedi. «Fare una reale innovazione, introducendo aiuti all’industria, è l’unico modo per tener fuori la Cina. Altrimenti è tutto finito: loro cresceranno sempre di più e a quel punto possiamo aspettarci che un miliardo e 400 milioni di persone arrivino qui e ci asfaltino».

Come ha fatto la Cina a diventare la «farmacia del mondo»? Passo dopo passo. «Il settore farmacologico globale fattura qualcosa come mille miliardi di dollari, con un più 6 per cento annuo negli ultimi dieci anni» spiega Arduini. «È cresciuto per l’aumento e l’invecchiamento della popolazione mondiale, per l’innovazione continua che permette di trattare malattie rare e proporre trattamenti terapeutici avanzati, ma anche perché l’accesso al farmaco è passato da un miliardo e mezzo di individui a due miliardi e mezzo». Cina e India, soprattutto, hanno raggiunto chi aveva un basso potere d’acquisto grazie ai loro farmaci generici molto economici. E dopo avere esportato nei Paesi poveri, hanno cominciato a prendersi un pezzo di torta di quelli più sviluppati, dove c’è il vero business. Con la loro efficienza low cost si sono resi appetibili a molte aziende di Stati Uniti, Europa e Giappone, che hanno iniziato a delocalizzare sia per le produzioni economiche, sia per «entrare» con partnership strategiche in quei popolosissimi paesi sempre più benestanti, infine per approfittare del gap normativo in fatto di impatto ambientale (e la chimica può inquinare tanto). Morale della storia: in Cina oggi si trova il 25 per cento della produzione mondiale di principi attivi e il 60 per cento dei cosiddetti «intermedi», o «precursori» (per arrivare al farmaco ci sono quattro passaggi: si parte da materie prime di varia natura; si sintetizzano intermedi o precursori; si ricava il principio attivo; si aggiungono gli eccipienti per modellare quello che troviamo nella confezione).

Sono soprattutto «generici», che usano gli stessi principi attivi del farmaco «di marca» dal brevetto decaduto (dura 20-25 anni). «Appena esce un farmaco innovativo i chimici di tutto il mondo lo studiano e sono in grado di replicarlo, dopodiché in Cina e India si comincia a produrre: lo si è visto anche recentemente per un trattamento dell’epatite C che da noi costava qualche migliaia di euro e là si trovava a 400-500 euro e si sono potuti curare» ricorda Enrique Häusermann, presidente di Assogenerici, l’organo di rappresentanza ufficiale dell’industria dei farmaci generici. In sostanza uno scippo? «In un certo senso sì. Ma non violano nulla: in alcuni casi l’uso per il mercato interno è possibile perché le norme sulla proprietà intellettuale su certi prodotti e in certi Paesi non sono valide. Proprio come facevamo noi italiani fino al 1978, anno in cui entrammo nella comunità internazionale dei brevetti». Ma intanto, racconta la storia, eravamo diventati leader indiscussi nei principi attivi. Cosa ne è rimasto di quel nostro piccolo impero? In verità non poco: siamo un’eccellenza. «Abbiamo la fortuna di essere uno dei principali produttori farmaceutici a livello mondiale e primi in Europa» ricorda Massimo Scaccabarozzi, presidente di Farmindustria.«Esportiamo l’85 per cento della nostro produzione di prodotti finiti in oltre cento paesi del mondo, mentre nei principi attivi abbiamo un market share del 9 per cento sul totale mondo. Dunque è chiaro» prosegue Scaccabarozzi «che se l’Europa ha certe preoccupazioni, l’Italia le ha marginalmente. Infatti durante la pandemia non siamo mai andati in carenza di farmaci». Ma il Dragone la fa comunque da padrone, con le sue produzioni abbondanti e qualità ormai accettabili. Quasi sempre.

Alcuni industriali italiani denunciano da anni i differenti standard che caratterizzano le produzioni orientali, testimoniate anche dalle warning letters inviate dalle agenzie regolatorie. «È noto che nei Paesi asiatici le attività ispettive sono sempre state meno stringenti rispetto a quelle di altri paesi, in particolare dell’Italia, ma gli è richiesta una dichiarazione di conformità alle nostre normative» spiega ancora Russolo.

«Il punto è che si dovrebbe sapere da dove arriva la materia con cui sono fatti i farmaci, perché altrimenti sulla confezione leggi che è fatto a Düsseldorf, ma quello che ingerisci proviene dalla Cina» dice sicuro Marcello Fumagalli. «Quando compri un filetto di carne sai tutto del bovino: dove è nato, cresciuto, macellato, perché è qualcosa che entra nel tuo organismo. I farmaci, a maggior ragione». Un argomento destinato a rimanere secondario, adesso che Bruxelles è intenta a puntellare una frana di nome «emergenza Covid». Entro il 12 novembre si dovrebbe approvare il programma Eu4Health: 9,4 miliardi da destinare alla salute del continente. Ma l’impressione è che – come spesso accade – la montagna partorirà un topolino. Nel programma è entrato qualunque problema europeo, dalle disuguaglianze sociali alla lotta contro il cancro, e a leggerlo così l’indipendenza dall’Asia non sembra essere in vista. «Chiedere di tornare a produrre in Europa non avrebbe comunque senso, senza un grosso carico finanziario» dice Arzuini. «I costi per riadattare la nostra industria, oltre che per la gestione in sé, sarebbero enormi. E i farmaci costerebbero molto di più».

«L’importante è che non si cambino in corsa le procedure» riflette invece Häusermann. «Si dovrebbe sburocratizzare, in modo da accelerare i futuri processi autorizzativi». Un punto condiviso da Scaccabarozzi: «Mi auguro che l’Europa investa, ma non è solo questione di soldi. Siamo in un mondo molto regolato: si snelliscano le procedure. E si consideri finalmente il nostro settore come un asset industriale, non come un costo».

Perché asset industriale lo è, e anche molto di più. Come ha sottolineato Nathalie Colin-Oesterlé a Bruxelles: «La salute pubblica è diventata un’arma geostrategica che può mettere in ginocchio un continente». Esagerato? Le cronache delle tensioni tra Cina e India dicono di no. Il Subcontinente dipende da Pechino sia per i precursori sia per i principi attivi, con l’80 per cento delle materie grezze importate. E il Dragone proprio in questi giorni sembrerebbe sfruttare la sua posizione di forza: ha alzato il prezzo dei precursori del 10-20 per cento, mentre è accusata di dumping dei principi attivi degli antibiotici. «È una silente rappresaglia» scrivono gli analisti di Delhi sullo storico newsmagazine The Week. La salute pubblica come arma geostrategica, appunto.

Lette in questa luce fanno impressione le parole che il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus (discusso per la sua vicinanza con Pechino) pronunciò nel discorso «Verso una via della seta sanitaria», il 18 agosto 2017. Disse: «La Cina è leader mondiale nella sorveglianza delle malattie e nel controllo delle epidemie. (…) Ha molto da insegnarci su questi temi. (…) Costruiamo insieme una sana Via della Seta. L’Oms sarà dalla vostra parte». L’Europa deve decidere da che parte stare. E questa sì, è una questione da mal di testa.

Quelli dalla ripresa veloce…

Dalla Cina il Covid-19 è arrivato al mondo, eppure su 1,4 miliardi di abitanti si dichiarano 25 positivi al giorno. Qualcosa non quadra.

di Maurizio Tortorella

Come ha fatto la Cina a guarire tanto in fretta dal virus cinese? Dai primi di agosto, la media dei contagi è nulla: viaggia stabilmente attorno a 25 positivi al giorno, un numero paradossale per un Paese con 1,4 miliardi di abitanti, unico al mondo quest’anno a registrare una crescita economica all’1,9 per cento. È il mistero del Covid-19, improvvisamente cancellato dal Paese che l’ha generato, azzoppando l’economia globale. A Wuhan, la città da cui nell’autunno 2019 era partito il coronavirus, e che in primavera era stata circondata dall’Esercito popolare di liberazione e trasformata in prigione, ora sono permessi grandi assembramenti, anche al chiuso, serate in iscoteca, partite di calcio. Tutti appassionatamente assieme, sia pure con mascherina, e per nulla distanziati. E Wuhan non è affatto un’eccezione fortunata, perché la piena normalità sembra tornata ovunque, in Cina. Qui la seconda ondata che sta terrorizzando l’Occidente non esiste. La prova generale è stata condotta nei primi giorni d’ottobre, la «settimana d’oro» che dal 1950 celebra l’anniversario della fondazione della Repubblica popolare con la «vacanza nazionale»: per visitare le località turistiche o per tornare a casa, dice il governo di Pechino, si sono mossi in 637 milioni di cinesi, appena il 19 per cento in meno rispetto al 2019. Viste le premesse, è stata una ripresa quasi totale, insomma, e comunque un risultato impensabile per qualsiasi altra parte del mondo. Online girano video che mostrano la Grande Muraglia e il Bund di Shanghai trasformati in formicai umani. Tanto che viene da domandarsi se le immagini siano vere, o frutto della propaganda di regime. Certo, se poi si scava nei dati dell’Oms emergono anomalie grandi come il palazzo dell’imperatore. E tornano in mente le distese di urne cinerarie che già a fine marzo contraddicevano con cupa evidenza i dati ufficiali che garantivano poco meno di 4 mila morti. Secondo ciò che il governo di Pechino fin qui ha comunicato all’Oms, i contagiati in Cina dal 3 gennaio al 12 ottobre sarebbero in tutto 91.305 e i decessi appena 4.746. Ma l’analisi dei dati giornalieri ha caratteristiche incredibili: c’è un giorno, il 17 aprile, che nella Repubblica popolare segna il picco assoluto di 1.290 morti. Ma dopo 24 ore, d’improvviso, i decessi crollano a zero. E zero restano fino al 12 maggio, quando rispunta un morto: un nuovo morto in tutta l’immensa Cina! In giugno c’è una recrudescenza, con un altro sfortunato registrato il 14 giugno, seguito da due il 16, e uno il 21. Poi lo stillicidio torna a rallentare. Mai più di uno o due morti al mese. Unica eccezione, la megalopoli sulla costa di Qingdao, 9 milioni di abitanti, si sono registrati una dozzina di casi di positivi. Ed è partita una campagna di screening di massa con centinaia di migliaia di tamponi. Che cosa potrebbe aver provocato l’inverosimile frenata dei contagi? Per quanto efficaci, le rigide misure di controllo sociale imposte militarmente alla società cinese non sono comunque in grado di realizzare questi risultati. Forse c’è riuscito un vaccino segreto? L’opacità del governo di Xi Jinping è totale, così come è stata sul laboratorio di Wuhan, sospettato di essere culla del virus. Non per nulla, l’Oms continua ad aspettareche Pechino approvi la composizione del team internazionale che dovrebbe indagare sulle misteriose origini della pandemia. Giustificando così in pieno l’accusa di un’indebita copertura delle esponsabilità del regime.

Il prezzo esagerato delle mascherine calmierate

In aprile Arcuri ha obbligato le farmacie a venderle a 50 centesimi. Oggi ce ne sono in abbondanza e ci si fa molto margine. Lui lo sa?

di Massimo Castelli

Tante, benedette e subito. Comprare una mascherina chirurgica non è più un problema. Lontani i mesi in cui la mancanza di questi presidi costringeva le persone a estenuanti ricerche, oggi se ne trovano in abbondanza. A partire dalle farmacie, ovviamente, dove il loro prezzo di vendita è lo stesso in tutta Italia: 50 centesimi l’una. Che poi è quello fissato per ordinanza il 26 aprile dal commissario straordinario Domenico Arcuri, quando il governo decise di «calmierare» i prezzi per garantire una protezione a chiunque, evitando speculazioni con rincari – come hanno raccontato le cronache – fino a 11 volte il valore di mercato. Ma mentre le inchieste sulle presunte frodi fanno il loro corso, quel che accade oggi può far alzare più di un sopracciglio.

«L’emergenza mascherine è finita e anche da un pezzo, eppure Arcuri non se n’é accorto» rileva Ugo Mugnaini, titolare dell’omonima farmacia di San Giuliano Terme a Pisa (quotata come la più grande d’Europa). «Oggi ne siamo inondati e le pago pochissimo, ma le vendo a 0,50 perché il commissario ha detto che è il prezzo da fare. L’ordinanza di sei mesi fa è rimasta tale e quale. E come me credo facciano tutti». In effetti è così. Panorama ha verificato che a Milano come a Roma o altre città italiane, è quasi impossibile trovarle a meno di 50 centesimi, mentre le ffp2 si pagano quasi ovunque tra i 4 e i 5 euro. Invece su Amazon 50 pezzi scendono a 3,40 euro, cioè 14,70 centesimi l’uno, mentre le ffp2 si trovano a 2-3 euro.

Quanto costano alla fonte? Prendendo come esempio il produttore turco Mediroc, le chirurgiche partono da 0,16 euro l’una e le ffp2 imbustate singolarmente quindi comode per la rivendita a 1,30 (esente iva). Ma si trovano soprattutto le cinesi (il Dragone oggi ne produce 450 milioni al giorno; dati Statista). Due esempi: quelle a marchio Omey sono fatte dalla Tonglu Kaiqi knitted garments per l’italiana Mabe srl e sono offerte ai farmacisti a un prezzo che parte da 18 centesimi per la classica tre veli chirurgica, e da 0,98 per la ffp2 (la ffp3, 2 euro). Da 18 centesimi anche per le chirurgiche a marchio Trade Inn, fabbricate dalla cinese Zhejiang Bangli medical products, che mette 1 euro le ffp2. È d’obbligo chiarire che questi prezzi sono per acquisti di grandissime quantità (minimo d’ordine che può essere di duemila pezzi in su) e le farmacie con un giro di clienti minimo non creano stock impegnativi. In questi casi i prezzi salgono e ai grossisti si sborsano anche 35 centesimi. Considerando però che all’orizzonte non c’è una vita a volto scoperto, i cospicui approvvigionamenti dovrebbero essere la norma.

«Oggi facciamo grandi ricarichi però prima, con il prezzo imposto, ci abbiamo rimesso» commenta un farmacista della zona est di Milano che chiede l’anonimato. «E perché mai le farmacie avrebbero dovuto accumulare mascherine per poi rimetterci?». Significa che quando non si trovavano in farmacia, in piena emergenza, era anche perché qualcuno non voleva rimetterci? «Sì, perché il governo ha preso le sue decisioni senza porci in condizione di adeguarci».

«I farmacisti sono stati massacrati: costretti a comprarne a migliaia pagando in anticipo, sennò non te le davano» dice ancora Mugnaini. «Io ho acquistato a prezzi assurdi, mascherine a un euro e più, guanti a 18, ma ci siamo attrezzati perché l’importante era che i clienti avessero cosa volevano. Quindi la nostra oggi non è speculazione, siamo nelle regole di Arcuri. Stiamo solo guadagnando dopo aver perso soldi prima. Non ci si arricchisce con le mascherine, non sono certo un oggetto di lucro per le farmacie. Mi preme dire però che il commissario Arcuri è stato scorretto prima, e “poco attento” poi» conclude Mugnaini. «Il mercato si è aperto ma ha lasciato la sua ordinanza dimostrando di non sapere niente del nostro settore. Lo dico col sorriso sulle labbra: è un improvvisato».


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