Il nuovo album Senjutsu degli ultra sessantenni Iron Maiden è primo in classifica in Italia e nel mondo nelle vendite di vinili e compact disc. Stesso successo per i Måneskin. Due band, cresciute a 40 anni di distanza, che basano la loro forza su basso, chitarra, batteria e niente diavolerie elettroniche o voci artefatte dal computer. I gusti musicali stanno cambiando. Il passato è tornato di moda.
Quarant’anni di carriera, 17 album best seller e migliaia di concerti sold out in tutto il mondo: è questo il curriculum degli inglesi Iron Maiden, la storica heavy band che con il nuovo album, Senjutsu, ha letteralmente scalzato dai vertici delle classifiche mondiali (Italia compresa) i rapper/trapper che spopolano negli smartphone degli adolescenti. È la rivincita del rock, ma anche di un pubblico che non si accontenta della musica liquida, quella che arriva in streaming nelle cuffie, che investe sul prodotto fisico (per il disco dei Maiden numerosi negozi hanno organizzato aperture notturne), contribuendo in maniera decisiva al fatturato del music business. Nei primi sei mesi 2021, le vendite dei vinili sono cresciute del 189 per cento, quelle dei compact disc del 52 per cento.
Ma la di là del mercato (la prima parte del 2021 ha registrato anche una crescita importante degli abbonamenti premium alle piattaforme streaming), l’ennesimo boom degli Iron Maiden in classifica è la spia della dedizione di una consistente fetta di pubblico a un altro modo di intendere la musica e soprattutto gli artisti: i Maiden sono in attività da 40 anni perché hanno un’identità precisa, un’idea di suono coltivata e sviluppata nei decenni, uno stile di scrittura che richiede creatività e talento musicale. Quando incidono un album come Senjutsu si chiudono per settimane nei Guillaume Tell Studios di Parigi, ex cinema trasformato in sala di registrazione, e suonano insieme, come una squadra. Niente brani prodotti nella cameretta, niente autotune per «aggiustare la voce», niente trucchetti digitali e sotterfugi vari, solo chitarre, basso, batteria e voce. Sei distinti metallari over 60, che quando vanno in concerto sanno riprodurre alla perfezione quel che si ascolta nei dischi. Esattamente quello che non sa fare buona parte dei rapper/trapper di ultima generazione, che sul palco mostra tutti i limiti tecnici e musicali.
Dietro al boom senza tempo della band inglese (negli Stati Uniti Senjutsu ha venduto la cifra record di 61 mila album fisici in meno di una settimana) c’è la scelta di non omologarsi, di comporre brani di 8-10 minuti in una scena musicale come quella contemporanea fatta di brani-lampo, spesso usa-e-getta. Non sono gente da tormentone e nemmeno da «featuring», gli Iron Maiden.
Già, l’abusata moda del featuring è l’altro stereotipo che affligge i dischi rap/trap, ma anche pop di ultima generazione. In poche parole, molti dei brani di un album vengono interpretati dal titolare del disco duettando o suonando con altri artisti. Un incrocio forzato, seriale, diventato regola aurea, che in rari casi risulta virtuoso, ma sempre più spesso crea soltanto uno sgradevole «effetto marmellata».
Difficile non collegare il prepotente ritorno della musica che contraddistingue gli Iron Maiden, e mette al centro la chitarra elettrica, al trionfo su scala mondiale dei Måneskin. Con la band di Zitti e buoni l’arte del rock and roll ha travalicato i confini della old school ed è tornata a essere viva vitale, sintonizzando per la prima volta, dopo molti anni, i gusti degli adolescenti con quelli del pubblico adulto legato al suono magico dei Led Zeppelin.
Se nei palinsesti delle radio di tutto il mondo il rock ha riconquistato spazio è merito del quartetto romano, che ha rotto lo stantio monopolio della trap/rap e del reggaeton. Un cambio di paradigma musicale, ma anche estetico. Quattro ragazzi carichi di adrenalina sul palco senza berrettini, collane, diamanti e outfit griffati.
Pelle, chitarre, sudore e una manciata di richiami al glam rock degli anni Settanta: una fisicità travolgente abbinata alla capacità di suonare e intrattenere. Ce n’era bisogno in un’epoca di musica imbalsamata, fatta di concerti tenuti da deejay nascosti dietro una consolle, da rapper/trapper uguali a se stessi, persi nelle rime da ghetto urbano con l’effetto «voce da robot» applicato al microfono.
Hanno cambiato la colonna sonora del mondo i Måneskin, e, cosa ancora più rara, l’hanno fatto da italiani, che si sono costruiti una carriera iniziando dalla strada, esibendosi per le vie di Roma e poi bruciando una tappa dietro l’altra, fino a imporre i loro volti sui megaschermi di Times Square a New York. Una vera gavetta rock and roll, una storia che regala sogni a chi vuole davvero provarci con la musica, quella suonata, che richiede passione, dedizione e confronto con gli altri. Partendo magari dalla cantina di casa per poi andare nel mondo e metterci la faccia.