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«In astinenza da palco, mi sono dato al jazz»

«In astinenza 
da palco, mi sono dato al jazz»

Dodi Battaglia, storico chitarrista dei Pooh, ha inciso un album con il musicista italo-americano Al Di Meola. Alla soglia dei 70 anni, racconta a Panorama episodi inediti della sua vita: dagli inizi con la fisarmonica «per far colpo sulle ragazze» alla band creata con Zucchero e Maurizio Vandelli «per suonare nei locali come facevamo a inizio carriera».


«Mi sento come un leone in gabbia, non ho mai trascorso tanto tempo lontano dalle luci del palco» racconta Dodi Battaglia, a poche ore dall’uscita di One Sky, il brano nato dalla collaborazione con il genio italo americano della chitarra jazz-fusion, Al Di Meola. «Io vivo con le vibrazioni della musica e grazie al piacere di andare in scena davanti a un pubblico. L’ho fatto per cinquant’anni con i Pooh e continuo a farlo adesso, da solista, perché non posso a farne a meno. Anni fa, pur di non trascorrere i giorni di festa al ristorante con amici e parenti, io, Zucchero e Maurizio Vandelli dell’Equipe 84 abbiamo messo insieme una band, Adelmo e i suoi Sorapis, per andare a suonare nei locali e nei club con un repertorio o “remerdorio”, come ama definirlo Zucchero, nel segno della più totale improvvisazione. Ci siamo esibiti più volte anche il 31 dicembre, proprio come facevamo a inizio carriera quando eravamo dei semplici orchestrali» spiega.

«Ora la pandemia ha messo in ginocchio la musica: ci sono migliaia di persone, tra artisti e crew, che non lavorano da mesi. L’autunno e l’inverno saranno senza concerti, ma non voglio nemmeno pensare che questa situazione si prolunghi oltre il primo giugno dell’anno prossimo quando, tra l’altro, compirò settant’anni, un’età in cui si tirano le somme. Ogni tanto, per ritrovare me stesso, vado a camminare da solo nelle strade del quartiere di Bologna dove sono nato. Dopo milioni di note e di chilometri in tour, è arrivato il momento di creare un ponte tra le mie origini, quello che sono stato e quello che sono» sottolinea. «Dai 5 ai 14 anni ho suonato solo la fisarmonica: ero diventato bravissimo e quando mi esibivo le ragazze si avvicinavano al palco. Poi, un giorno, in un negozio nel centro di Bologna, sentii uscire da un juke box le note di Atlantis, un classico degli Shadows, leggendaria band inglese degli anni Sessanta. Fu un’autentica folgorazione: da quel momento non ho più toccato la fisarmonica e mi sono dedicato esclusivamente alla chitarra. Che mi ha regalato tantissime soddisfazioni, inclusa quella di smentire i parenti, convinti che come musicista sarei finito a chiedere l’elemosina sui gradini della chiesa».

In attesa del ritorno sul palcoscenico nel 2021, l’ex Pooh si è concesso il lusso e il piacere di incrociare il suono della sua chitarra con quello di uno dei più grandi musicisti viventi. «La canzone che abbiamo suonato insieme non è uno sfoggio di tecnica chitarristica, ma un brano che parla al cuore. Ho conosciuto Al Di Meola negli anni Settanta dopo un concerto a Padova in cui si esibiva con altri due chitarristi straordinari: Paco De Lucia e John McLaughlin. Alla fine dello show lo vidi scendere dal palco e raggiungere la platea mentre la gente se ne andava a casa: mi avvicinai timidamente e gli feci i complimenti. Una seconda volta lo incontrai a Bologna in un locale dove era prevista una jam session per festeggiare il compleanno di Zucchero. Detto questo, non avrei mai pensato di incidere qualcosa con lui. Invece, è successo: ci siamo parlati via computer e abbiamo iniziato a lavorare subito su One sky. A questo punto della vita, dopo cento milioni di album venduti con i Pooh, entro in sala d’incisione spinto soltanto da un’irrefrenabile passione per la musica. Proprio in questi giorni sto registrando a Como un nuovo album con un sound totalmente diverso rispetto a quello che la gente si aspetta da me».

Considera definitivamente conclusa la storia con i Pooh? «I Pooh non finiranno mai perché molte delle canzoni che abbiamo scritto vivono nella memoria collettiva. Basta accendere la radio o trascorrere una serata in un pianobar. Quanto all’ipotesi di ritrovarci un giorno su un palcoscenico, io ci starei subito, ma a una condizione, ovvero che l’organizzatore del concerto stacchi un assegno che finisca per “oni” e non per “ila” da devolvere a un’associazione benefica. Mi sembra l’unico modo per restituire qualcosa, per ricambiare lo straordinario affetto che abbiamo ricevuto dagli italiani in cinque decenni fantastici».

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