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Guerra Hamas-Israele; cosa accadrà nei prossimi 100 giorni a Gaza e non solo

Guerra Hamas-Israele; cosa accadrà nei prossimi 100 giorni a Gaza e non solo

Sono passati 100 giorni dall’attacco di Hamas e la situazione sembra complicarsi sempre più

Dopo cento giorni di guerra in Terra Santa, per molti media e nondimeno numerosi governi a qualunque titolo coinvolti, è tempo di bilanci. Certo, giova a tutti ricordare che, dall’attacco dello scorso 7 ottobre i morti israeliani tra i civili sono stati 1.200, 12 mila i feriti, e 136 gli ostaggi ancora in mano ad Hamas. Così come è bene sapere che sono 24 mila i morti civili tra le fila palestinesi, di cui quasi mille in Cisgiordania, e che 1,9 sono i milioni di sfollati dalla Striscia di Gaza, dove gli edifici danneggiati corrispondono a circa il 50% del totale pre guerra.

Si potrebbe andare avanti a lungo nel freddo calcolo delle statistiche. Ma ben più importante oggi è sapere, o provare a capire, non tanto cosa sia accaduto – è o dovrebbe essere già chiaro a tutti – piuttosto quel che accadrà nei cento giorni a venire, e oltre ancora. Già, perché se da un lato è certamente vero che la guerra prosegue a oltranza, dall’altro esiste un’agenda diplomatica che il governo di Gerusalemme da un lato e la regia internazionale filo-palestinese dall’altro, perseguono congiuntamente all’esito della guerra.

Dopo settant’anni di problematica coesistenza, Israele e Palestina restano indiscutibilmente due attori centrali nel Grande Gioco del Medio Oriente, e tuttavia non si possono ancora definire Paesi del tutto compiuti. I tre elementi che costituiscono e definiscono ogni Stato del mondo, infatti, sono: il territorio; il popolo che lo abita; la sovranità esercitata su di esso dal governo.

Ora, la Palestina è notoriamente la grande incompiuta, non essendo ancora neanche uno Stato riconosciuto né geograficamente delineato; al contrario Israele lo è, ma coabita con questo rompicapo territoriale che non ha mai consentito un accordo chiaro e definitivo sui rispettivi confini. Inoltre, la sua politica espansiva in Cisgiordania non consente ancora di delimitare a uno spazio chiaro e circoscritto la propria sovranità politica e territoriale.

Stante la diffidenza tra le parti ad accordarsi per la soluzione «due popoli, due Stati», tale situazione d’indeterminatezza ha portato nei decenni a continui stravolgimenti e guerre più o meno prolungate, che non staremo qui a ripercorrere. Così anche ogni tentativo di accordo è naufragato per molteplici ragioni: ultimi in ordine di tempo gli Accordi di Oslo, che alla prova dei fatti sono rimasti sulla carta, mentre gli attuali Accordi di Abramo sono tra le ragioni che hanno portato a questo ennesimo conflitto.

I possibili piani per il futuro

I piani per il futuro di questa terra, dunque, non possono prescindere da alcuni elementi che si sono stratificati nel tempo, proprio come per le antiche mura di Gerusalemme o i fabbricati sui quali sorge la contestatissima moschea di Al Aqsa.

Primo. Se gli obiettivi finali di Israele non sono ancora ben definiti, di certo i funzionari israeliani si sono posti come traguardo minimo e imprescindibile di eliminare ogni traccia di Hamas: non solo dal punto di vista tattico, ma anche della capacità di governo militare o giurisdizionale sopra Gaza. Ciò significa che gli obiettivi a breve termine di Gerusalemme «sono definiti in modo tale da suggerire che Israele avrà una presenza di sicurezza continua a Gaza. Quindi non si tratta di progettare come sarà governata Gaza quando gli israeliani si ritireranno, perché non stanno parlando di ritirarsi», come suggerisce Nathan Brown, senior fellow del Carnegie Endowment for International Peace.

È difficile in effetti immaginare uno scenario a cento giorni in cui l’esercito israeliano non mantenga una presenza sul terreno per impedire che le ultime vestigia di Hamas si ricostituiscano. Dunque, l’Idf verosimilmente continuerà a supervisionare la sicurezza e la vita civile nella Striscia sino a che non sarà possibile trasferire ad altro ente, sia esso l’Onu o una nuova istituzione palestinese, le attività governative.

A lungo termine, non pochi esperti indicano come via possibile una coalizione di Stati arabi – potenzialmente gli stessi firmatari degli Accordi di Abramo, con cui Israele ritiene di poter lavorare, ovvero Israele, Emirati Arabi, Bahrain, Stati Uniti, Marocco e Sudan – che potrebbero fare la funzione di una forza garante e provvisoria per riempire il vuoto di sicurezza e di governance a Gaza, con il sostegno di Unione Europea e Nazioni Unite. Questo dipenderà molto dal ruolo dell’Arabia Saudita e del Qatar, prim’attori regionali, e in second’ordine di Egitto, Turchia, Giordania e Iran. «Vedo soldati egiziani, giordani e sauditi con la comunità internazionale che controllano la regione durante una fase provvisoria, e un’enorme quantità di denaro che arriverà dagli Emirati e dai sauditi per ricostruire», ha dichiarato in proposito Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet.

Secondo. Il futuro di Gaza passa inevitabilmente per la monumentale sfida della ricostruzione, il cui costo si aggira per il momento intorno al miliardo e mezzo di dollari. Ospedali, abitazioni, infrastrutture, sorgenti energetiche, impianti di depurazione dell’acqua: l’ente che, tra le altre cose, sovrintenderà a tutto ciò – e che dovrà gestire le donazioni evitando che finiscano in un gorgo di corruzione e distrazione del denaro, o peggio per finanziare la guerriglia – avrà un’importante voce in capitolo.

Ma questo ente avrà anche la responsabilità della sicurezza? Questo è uno dei principali nodi su cui si dipanerà la road map per il futuro di Gaza. Già in passato i soldi donati ad Hamas sono stati usati per fabbricare armi e scavare tunnel anziché per la popolazione palestinese, e parimenti le restrizioni israeliane sulle importazioni hanno reso impossibile risollevare le sorti di Gaza City e dintorni.

Terzo. Il futuro governo politico della Striscia. Messa fuori gioco Hamas dagli israeliani, il candidato più ovvio per riempire il vuoto sarebbe l’Autorità Palestinese (AP), che gestisce già la Cisgiordania: creata sulla scia del processo di pace di Oslo a metà degli anni Novanta, AP non ha però saputo capitalizzare la fiducia riposta nell’organizzazione, e difatti i palestinesi di Gaza gli hanno voltato le spalle, preferendogli Hamas. Inoltre, i leader di AP non vogliono «essere visti come se arrivassero su un carro armato israeliano e s’impadronissero della Striscia di Gaza», come ha ben sottolineato Zaha Hassan, borsista del Carnegie Endowment for International Peace. Senza contare che l’Autorità palestinese non tiene elezioni presidenziali dal 2005, quando fu eletto per la prima volta Mahmoud Abbas, oggi 87enne plenipotenziario.

La stragrande maggioranza dei palestinesi considera la leadership di AP e in particolar modo il suo capo corrotti e inefficienti, anche in ragione del fatto che da allora i coloni israeliani hanno continuato a espandersi con nuovi insediamenti in Cisgiordania. Abbas sarebbe forse disposto a raggiungere un’unità politica con Hamas (anche se diversi tentativi di dialogo in tal senso sono falliti nel corso degli anni), ma una sorta di «governo di unità nazionale» non sarebbe mai accettato da Israele, anche se gli Stati Uniti sognano ancora la soluzione a due Stati e un’entità palestinese unificata. Come scrive in proposito da mesi il Middle East Institute, però, «la politica non è una cosa che si può progettare dall’esterno». Dunque, in un bagno di realismo anzitutto Abbas si dovrebbe dimettere, e poi si potrebbe tentare la via di un governo unitario o espressione della sola AP.

Conclusioni

Ciò che è certo è che la guerra è destinata a proseguire, almeno fintanto che gli iraniani continueranno ad armare gli Houthi nel Golfo, gli Hezbollah in Libano e le soldataglie varie in Siria. L’accerchiamento progressivo di Israele, infatti, ha portato Gerusalemme a considerare ormai questo conflitto come l’unica – e ultima – possibilità per riaffermare la propria esistenza nella regione. Perciò, il governo (non solo Bibi Netanyahu, ma l’intero gruppo dirigente) è deciso ad andare sino in fondo. Come a dire, ciò che la politica internazionale non riesce a ottenere, sarà raggiunto con la forza. Il 2024, in conclusione, difficilmente sarà l’anno della soluzione per Gaza. Di certo, non prima di conoscere il pensiero in merito del nuovo presidente degli Stati Uniti. Anche se, in fondo, la soluzione per questa terra martoriata è in mano soltanto ai suoi abitanti.

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