A Washington piace l’asse tra Roma e Parigi. Perché, tra le varie cose, presidia Africa e Mediterraneo e permette agli anglo-americani di concentrarsi sull’Indo-Pacifico.
A distanza di pochi giorni dalla solenne celebrazione, dell’accordo tra Italia e Francia è già guardato con sospetto. Dalle nostre parti lo si vive perlopiù con un misto di paura e speranze, tra timori di «ascarizzazione» e volontà di contare di più in Europa e nel mondo. Tre, finora, sono gli aspetti problematici segnati sui taccuini degli analisti.
Il primo aspetto ha a che fare con le simmetrie tra Italia e Francia. L’accordo è stato acciuffato in extremis, intercettando una delle ultime finestre temporali di relativa stabilità di cui possono godere i due Paesi. A Roma regna Mario Draghi, a Parigi Emmanuel Macron. In questo momento c’è un buon equilibrio. Ma le carte si rimescoleranno presto: nella primavera dell’anno prossimo scattano infatti le presidenziali francesi, che vedono nel capo dello Stato uscente, Macron, il favorito. Al di qua delle Alpi, invece, il quadro si presenta a dir poco confuso. L’unica certezza è che a febbraio del prossimo anno scadrà il settennato di Sergio Mattarella, e le elezioni del prossimo presidente potrebbero spalancare le porte a elezioni politiche. C’è dunque il rischio che la Francia, passata la tornata elettorale, riacquisti la stabilità necessaria per lavorare alle fasi attuative del Trattato, mentre l’Italia precipiti nel burrone della volatilità politica.
Il secondo aspetto molto criticato è che il ricorso ad accordi bilaterali finisce per depotenziare l’Unione europea, frammentandola al proprio interno. Il rilievo è in parte fondato, ma omette di rilevare che, soprattutto su esteri e difesa, la Ue non ha mai parlato con una voce sola.
Il terzo aspetto è che un abbraccio con i francesi ci allontana dalla Germania (a beneficio del solo potere di Parigi), a cui l’Italia rischia di fare da «ascaro». Senza contare che tale sodalizio potrebbe compromettere i rapporti con la Turchia, con cui Roma è in bonis mentre la Francia ha frequenti frizioni.
A superare questi aspetti critici contribuisce non poco il ruolo degli Stati Uniti. Il bilaterale Roma-Parigi per molti aspetti è un «trilaterale», con Washington nella parte del convitato di pietra. È evidente che, se il Trattato si è firmato, è anche perché gli Usa non lo vivono con insofferenza. Il testo contiene espliciti riferimenti alla Nato e all’articolo 5 dello Statuto di questa organizzazione di difesa comune. Passano in cavalleria, quindi, i caustici commenti di Macron su di essa. La verità è che, mai come ora, Francia, Italia e Stati Uniti hanno bisogno gli uni degli altri. È il contesto globale di aperta competizione tra Cina e Occidente a richiederlo. Oggi Pechino incarna l’incubo peggiore degli strateghi anglo-americani: una potenza in grado di riunire l’Eurasia e saldare Eurasia e Africa, dando corpo al mega-blocco che Halford Mackinder chiamava «Isola-Mondo».
Da soli, gli Usa non possono arginare la Cina. Lo hanno capito anche i francesi, che puntano a rafforzare i rapporti con Washington assecondandone il principale vettore, cioè l’enfasi sul quadrante Indo-Pacifico. Regione del mondo in cui Parigi ha non poco da dire, dal momento che vi insistono diversi territori francesi, e vi è una ricca storia di commercio, insediamenti e guerre.
Ma gli Stati Uniti stanno facendo capire che il ruolo della Francia, pur apprezzato, deve concentrarsi altrove. Nel Mediterraneo, dove i cinesi si sono ormai fatti largo, e ancora di più in Africa, dove Parigi ha già una forte presenza che, unendo le forze con Roma, aiuterebbe a presidiare questo continente cruciale. Con Francia e Italia nel ruolo di «proconsoli» nel Mediterraneo e in Africa, gli americani potrebbero concentrarsi sull’Indo-Pacifico assieme ad australiani, giapponesi e indiani. Quanto alla Turchia, è da escludere che gli Usa vedrebbero di buon occhio un arroventamento nei rapporti tra Roma, Parigi e Ankara. I turchi, infatti, sono a loro volta strumentali a contenere l’avanzata cinese in Medio Oriente, Asia centrale e anche in Africa.
A Washington, infine, non può dispiacere che si formi un controcanto rispetto alla Germania. Berlino, infatti, è l’osservata speciale in Europa. Il suo tradizionale «eurasismo», combinato con politiche mercantiliste, ha contribuito a saldare rapporti forti (troppo) con la Cina. Per contrastare tale tendenza a Berlino, gli Stati Uniti possono puntare ora su alleati nella nuova coalizione di governo tedesca: verdi e liberali. A Bruxelles, invece, contano sempre più su italiani e francesi.
Francesco Galietti è esperto di scenari strategici, fondatore di Policy Sonar
