A distanza di giorni dall’attacco di Sydney, le indagini non hanno ancora chiarito chi abbia ispirato o fornito un supporto concreto ai due autori della strage avvenuta domenica sulla spiaggia di Bondi Beach. Secondo quanto riportato da diversi media australiani, Sajid Akram, 50 anni, morto durante l’azione, e suo figlio Naveed Akram, 24 anni, attualmente ricoverato in ospedale sotto scorta della polizia, avrebbero ucciso 16 persone e ferito altre 47. Le stesse fonti sostengono che i due si sarebbero addestrati nelle Filippine e avrebbero giurato fedeltà allo Stato Islamico. A sostegno di questa ricostruzione, tuttavia, non è stata finora presentata alcuna prova verificabile. Nessun video, nessuna fotografia e nessuna rivendicazione. È in questo vuoto di certezze che una domanda continua a rimbalzare tra media e analisti: perché lo Stato Islamico non ha rivendicato l’attacco? In un contesto in cui bandiere nere, slogan jihadisti e riferimenti al Califfato vengono spesso associati automaticamente all’ISIS, il silenzio dell’organizzazione non è un dettaglio marginale, ma un elemento centrale per comprendere la natura dell’azione e, soprattutto, i limiti di una lettura semplificata del jihadismo contemporaneo. Contrariamente a quanto si tende a credere, lo Stato Islamico non è una sigla simbolica aperta a chiunque decida di agire in suo nome. È – e continua a essere, nonostante la perdita del controllo territoriale in Siria e Iraq – un’organizzazione strutturata, dotata di una rigida catena di comando, di regole operative precise e di una dottrina definita sulla legittimità delle azioni armate. Proprio per questo motivo, l’ISIS non rivendica mai attentati compiuti da singoli individui non inseriti in una rete riconosciuta.
Il caso di Sydney rientra perfettamente in questo schema. La presenza di elementi iconografici o ideologici riconducibili all’universo jihadista non equivale automaticamente a un’operazione dello Stato Islamico. L’ISIS rivendica esclusivamente ciò che può controllare, verificare e ricondurre a una propria struttura operativa, sia essa territoriale o clandestina. Attribuirsi azioni improvvisate, mal pianificate o frutto di una radicalizzazione individuale significherebbe compromettere la propria credibilità strategica. Questo approccio emerge con ancora maggiore chiarezza se confrontato con quanto avvenuto a Mosca il 22 marzo 2024, quando un commando jihadista colpì la Crocus City Hall, provocando oltre 140 morti e più di 500 feriti. In quel caso, lo Stato Islamico rivendicò l’attentato nel giro di pochi minuti , diffondendo attraverso i propri canali ufficiali i video dell’azione, girati dagli stessi attentatori durante l’attacco con le telecamere GoPro. Una rivendicazione immediata, dettagliata e accompagnata da materiale audiovisivo, possibile solo perché l’operazione era pienamente riconducibile a una struttura jihadista inserita nella galassia organizzativa dell’ISIS e coordinata con i suoi apparati di propaganda e sicurezza.
Il contrasto con Sydney è netto. Quando l’organizzazione dispone di informazioni dirette sugli esecutori, ne controlla i canali di comunicazione e può certificare il legame operativo con una propria rete, la rivendicazione diventa uno strumento strategico immediato. Al contrario, in assenza di un collegamento verificabile con la propria struttura, il silenzio prevale. Non per esitazione o irrilevanza, ma per coerenza dottrinale e per la tutela delle cellule clandestine ancora attive. Per l’ISIS, la rivendicazione non è propaganda emotiva, ma uno strumento militare. Ogni comunicato serve a dimostrare capacità, disciplina e continuità operativa. Rivendicare l’azione di un attentatore isolato significherebbe accettare l’idea di un jihad anarchico, svincolato dal controllo centrale: esattamente ciò che l’organizzazione rifiuta sul piano dottrinale. Nella visione del Califfato, il jihad non è un gesto individuale, ma un’azione ordinata, autorizzata e inserita in una strategia più ampia.C’è poi un ulteriore elemento, spesso sottovalutato: la sicurezza delle reti clandestine. Rivendicare un attentato implica la disponibilità di informazioni dettagliate sugli autori, sulle modalità operative e sui contatti utilizzati. In assenza di dati certi, il silenzio diventa una forma di autodifesa. Esporsi senza controllo significa rischiare di compromettere strutture reali che sono ancora attive.Il nodo centrale del dibattito successivo all’attacco di Sydney sta dunque nella confusione tra ispirazione ideologica e appartenenza organizzativa. Molti attentatori agiscono sotto l’influenza di una propaganda diffusa online, ma restano estranei a qualsiasi struttura jihadista formalizzata. L’ISIS è pienamente consapevole di questa distinzione e traccia una linea netta tra chi si ispira al Califfato e chi ne fa realmente parte.Il silenzio dell’ISIS su Sydney non segnala debolezza né irrilevanza, ma selezione. È la dimostrazione che l’organizzazione continua a concepirsi come uno Stato e un esercito, non come un marchio da rivendicare a posteriori. Un dato che dovrebbe indurre media e decisori politici a maggiore cautela: attribuire automaticamente ogni atto di violenza al terrorismo organizzato rischia di oscurare il problema reale, quello della radicalizzazione interna e delle zone grigie tollerate nel tempo. Sydney non è meno grave perché non rivendicata. Ma comprenderne correttamente la natura è essenziale per evitare diagnosi sbagliate — e ancora una volta risposte altrettanto sbagliate.
