Le scogliere di Dover, per secoli avamposto inglese contro i nemici, non fanno più da barriera: da mesi migliaia di clandestini
arrivano a bordo di barchini e gommoni. Tutti chiedono il diritto d’asilo. Pochi ne hanno realmente diritto.
In cima alla «bianca scogliera» di Dover, proprio sopra la città, alcuni turisti fotografano un rudere rotondo accanto una chiesa. La giornata è grigia, ma dai circa 30 metri di altezza dell’altura a picco sul porto si avvista chiaramente la costa della Francia. Il rudere è un faro romano: fu costruito lì sopra nel 50 d.C., pochi anni dopo la conquista dell’isola che l’imperatore Claudio battezzò Britannia. Dopo Stonehenge è il più antico monumento di tutto il Paese.
Il posto non fu scelto a caso dai legionari romani: Dover è il punto più stretto del canale della Manica. La Francia dista solo 12 chilometri: il faro serviva per presidiare il punto più debole di tutta la costa dalle tribù di sassoni e angli che facevano continue incursioni (tanto che alla fine i romani se andarono e lasciarono il Paese alla mercè delle tribù nordiche).
Quando mille anni dopo, nel 1181, il re normanno Enrico II dovette tenere a bada i suoi possedimenti Oltremanica e difendersi dalle scorribande dei vichinghi che arrivavano dal mare del Nord, costruì il suo castello sulla collina, accanto al faro. E sette secoli dopo, nella Seconda guerra mondiale, Winston Churchill piazzò sulla stessa altura, vicino al faro e al castello, i cannoni contro gli aerei nazisti.
Da 2.000 anni la collina è l’avamposto che ha difeso l’isola dalle invasioni. Ma oggi Dover Castle è solo un museo. Non riesce più a proteggere la Gran Bretagna dai «nuovi barbari»: gli immigrati clandestini, che non arrivano su lunghe e sottili navi da guerra o sganciano bombe, ma utilizzano con disinvoltura il «diritto di asilo». Il 2 settembre, favoriti da un mare liscio come l’olio, sono approdati a Dover 27 gommoni e barchini, che hanno scaricato 409 irregolari.
È il più grande sbarco di sempre. E nel 2020, anno del Covid, in appena 8 mesi, sono arrivati via mare nel Paese 5.000 clandestini, mai così tanti. Oggi dalla collina nessuno controlla più: l’unico che sbraita contro lo stillicidio senza sosta è Nigel Farage, il padre della Brexit, frettolosamente liquidato come il Beppe Grillo d’Inghilterra.
Dover è la Lampedusa del Regno Unito. A prima vista non potrebbe essere più diverse come aspetto, clima e cultura. Eppure i due luoghi sono accomunati dal fenomeno incontrollato che sta investendo l’Europa: l’ondata di persone in arrivo da Paesi africani e Medioriente, senza lavoro né opportunità. I 409 sbarcati a Dover sono stati trattenuti dalla polizia, che però è stata costretta a rilasciarli: il diritto di asilo ha creato un sistema paradossale. La maggior parte di coloro che giungono qui si disperde nelle campagne del Kent.
Boris Johnson è stato votato in massa per mettere in pratica la Brexit. Ma la Brexit e immigrazione sono due facce della stessa medaglia: la gente di Dover vuole uscire dalla Unione europea, nella speranza che una frontiera blocchi gli sbarchi. Finora nessun risultato: secondo l’Ippr, un centro studi pubblico, il tasso di rimpatri si è dimezzato negli ultimi anni. Il problema è che chi arriva, poi resta.
Anche la Gran Bretagna sta scoprendo che è quasi impossibile rimpatriare gli irregolari, che senza lavoro finiscono spesso per delinquere. Soluzione drastica, non farli arrivare. Il ministro degli Interni Priti Patel, figlia di immigrati, ha promesso il pugno duro: ha schierato esercito e droni, con una pioggia di critiche. Ma va avanti. E sta studiando un modello Australia, il Paese più rigido rispetto al fenomeno migratorio.
Lungo la High street di Dover, che sarebbe il nostro corso, è un susseguirsi di negozi chiusi, tre operai camminano con un sacchetto in mano: è l’ora della pausa pranzo. «Non le piacerebbe sapere cosa pensiamo degli immigrati» tagliano corto. The Allotment, che la guida Lonely Planet incorona miglior ristorante della città, è chiuso: non ha riaperto dopo il lockdown.
Il negozio Curiosity of Dover è gestito da un’anziana signora, Helen: «Questa è una piccola isola nella geografia mondiale; non c’è lo spazio né le risorse per accogliere tutti. Ho un figlio disabile ma gli immigrati lo superano nelle graduatorie di sostegno. I giovani hanno le loro colpe, ma questa marea di persone accetta qualsiasi paga, e taglia ancora di più fuori dal lavoro i nostri figli». Helen vende, a fatica, souvenir, ma ha appena messo a fuoco bene uno degli effetti economici dell’immigrazione: il «dumping salariale» che impoverisce un’intera società.
A Dover gli unici favorevoli all’immigrazione sono i proprietari del ristorante turco: però sono cinesi. Miracoli della globalizzazione.
Per alcuni, Dover è una città razzista. Ma è solo desolata e povera. Il lungomare, deturpato da casermoni di cemento anni Sessanta, non ha niente di romantico: davanti alla spiaggia ci sono le case popolari, non appartamenti di design. Sulle panchine vista mare due donne accudiscono una bambina. La più giovane è disoccupata: «Sono andata alla Food Bank (il Banco alimentare, ndr), ero in fila ma gli immigrati mi passavano davanti: il cibo lo danno prima a loro perché hanno la precedenza. Lo dice la legge: sarà giusto così ma io sono nata in questo Paese e quando arriva il mio turno, il cibo è finito».
Accanto a lei, la donna più anziana, con una bocca che ha bisogno di un dentista e una t-shirt di Stranger Things, la serie horror Netflix che spopola tra i nerd, è sconsolata: «Non sono contro gli immigrati in sé. Capisco che chi ha un bambino provi a farlo crescere in un posto con maggiori opportunità. Ma vede i miei denti? Li devo cambiare. Sono mesi che aspetto il dentista della Nhs (la sanità pubblica e gratuita inglese, ndr). Ma non c’è mai posto perché prima ne hanno diritto gli immigrati. E io non posso curarmi».
A pochi passi da qui, nel 2016, dopo il referendum sulla Brexit, sulla facciata di un palazzo comparve un murales di Banksy, l’artista anonimo britannico, controcorrente e molto alla moda. Raffigurava la bandiera europea e criticava l’uscita britannica. Due anni dopo è stato rimosso. Indignazione da parte di molti: a Dover sono razzisti e nazionalisti. Ma Banksy non vive a Dover, dove a mezzogiorno la piazzetta principale è affollata di anziani in carrozzella.
Da un vicoletto alle spalle del centro, arrivano grida, voci disordinate. È una famiglia, numerosa, di immigrati: il padre sta strattonando la bambina e tutti urlano. Per l’understatement inglese, dove nessuno si sogna nemmeno parlare in strada al telefonino, il comportamento di questi stranieri è duro da accettare.
Dopo lo sbarco record, a Dover alcuni manifestanti si sono riuniti al porto per dire basta all’immigrazione clandestina. Per tutta risposta, in centro città sono arrivati i progressisti al grido di «accoglienza». E hanno costretto molti negozi a chiudere per evitare danni: il piccolo fruttivendolo ha messo un cartello: «Grazie alle proteste, sabato non sarà disponibile cibo». I manifestanti mostravano cartelli a favore degli immigrati. Uno di questi, ripreso dalla Bbc, diceva: «I migranti fuggono dalla guerra, povertà e dalla catastrofe climatica».
Peccato che tutte e tre le affermazioni siano in gran parte false: i rifugiati di guerra sono una percentuale minima in questi sbarchi; la povertà di migranti con telefonino in mano e senza i segni della fame in viso è quantomeno discutibile. E la vera catastrofe climatica è a Londra: a settembre si registrano 29 gradi, non piove da un mese e il Tamigi è così in secca che le barche si sono arenate sulla riva senza acqua. Sì, c’è già un’emergenza in questa che non può più essere «terra promessa».
