Nel continente si rafforza il potere cinese grazie alla «diplomazia del vaccino» e all’incapacità di molti Paesi di ripagare i prestiti contratti con Pechino. Che non sostiene queste nazioni per affinità ideologiche, ma punta alle loro immense riserve di materie prime.
«Cosa c’è di buono in un abbraccio fraterno che però ci lascia in uno stato di fallimento respiratorio?». Questa la domanda che si faceva pochi giorni fa il ministro degli esteri del Paraguay Euclides Acevedo, riferendosi a Stati Uniti e Taiwan. Per poi aggiungere su Telefuturo, televisione molto seguita nello Stato sudamericano: «I nostri alleati strategici devono rispondere».
Il problema è che il Paraguay è in piena crisi da coronavirus e in piena crisi politica per le manifestazioni di piazza contro il presidente Mario Abdo Benítez, che hanno provocato un morto meritando l’attenzione di Papa Francesco, il 17 marzo scorso. Acevedo vorrebbe a qualsiasi costo vaccini per inoculare ma sta avendo enormi difficoltà ad acquistarli da Pechino. Ma anche dal Covax, il meccanismo messo su dall’Oms per inoculare i Paesi in via di sviluppo, che si è fatto pagare da Asunción (tramite Ops, la sua agenzia latinoamericana) una quota anticipata d’ingresso nel sistema onusiano di oltre 6 milioni di euro nell’ottobre 2020 senza sganciare neanche una dose di vaccino sino alla fine di marzo.
Taiwan ha accusato Pechino di usare la «diplomazia del vaccino» contro il Paraguay, e i media mainstream hanno subito associato la cosa al fatto che è uno dei tre Paesi rimasti in America Latina a riconoscere l’ex Cina nazionalista, dai tempi del dittatore filonazista Stroessner, in piena Guerra fredda. In realtà il metodo della «diplomazia del vaccino», usato da Pechino in questa regione del mondo, fa leva sulla scarsità di sieri ed è molto più sottile e sta assai più a monte. Lo dimostra il fatto che anche la dittatura sandinista del Nicaragua che con Pechino va a braccetto riconosce Taiwan, senza alcuna polemica e senza che nessuno lo faccia notare. E lo dimostra la quota milionaria e vergognosa, chiesta dall’Ops in anticipo al Paraguay, che è Paese in via di sviluppo, per accedere al sistema Covax.
Il presupposto essenziale per fare business con qualsiasi Stato estero posto da Pechino, insomma, non c’entra nulla con i riconoscimenti diplomatici, almeno dai tempi di Henry Kissinger e Richard Nixon, quando a inizio anni Settanta anche gli Stati Uniti passarono a riconoscere Pechino in funzione antisovietica. In realtà la «diplomazia del vaccino» denunciata da Taiwan fa leva sulla scarsità dei sieri e sulle prevedibili crisi sociali che nel continente con più morti per Covid-19 (un milione su tre milioni in tutto) indeboliscono governi già storicamente fragili.
Pechino è il maggiore fornitore di vaccini dell’America Latina, ma non perché alcuni governi della regione non abbiano cercato di comprarli da Pfizer o AstraZeneca, dati alla mano quelli che stanno dando i migliori risultati se guardiamo a Israele o al Regno Unito (per la cronaca Moderna, il siero finanziato dagli Usa durante l’amministrazione Trump, è usato in Svizzera), ma perché non sono arrivati, se non in quantità minime.
Se il solo vaccino a disposizione è quello cinese (insieme a quello russo) è ovvio che questo ha aumentato il potere di pressione di Pechino ovunque in Sudamerica. E così i due principali governi di destra del continente, quello di Sebastián Piñera, in Cile, e quello di Jair Bolsonaro, in Brasile, senza i sieri delle multinazionali occidentali, alla fine hanno dovuto fare ricorso al solo a disposizione su larga scala, quello cinese appunto. Facendo accordi con Pechino che oggi fornisce le materie prime per produrre in Brasile non solo il vaccino cinese Sinovac ma anche quelle dell’anglo-svedese AstraZeneca.
Il potere cinese era comunque già enorme da tempo, grazie ai debiti che Stati come Ecuador, Venezuela, Bolivia e Argentina hanno contratto negli ultimi anni nei confronti del Dragone. Eclatante il caso dell’Ecuador, dove il neopresidente di centrodestra Guillermo Lasso dovrà per forza di cose venire a patti con Pechino visto che la sinistra che lo ha preceduto per 14 anni al potere ha rubato a più non posso, ingigantito la macchina pubblica per erogare sussidi miserabili e, soprattutto, svendendo le materie prime del Paese alla Cina.
Responsabile, nello specifico, l’ex presidente di sinistra Rafael Correa, che ha concesso alle multinazionali cinesi la possibilità di estrarre petrolio nel maggior parco nazionale, lo Yasuni, nel silenzio tombale degli ambientalisti globalisti. Stesso discorso per i minerali della Cordigliera del Condor, dove alcuni leader indigeni che si sono opposti un lustro fa alla distruzione ambientale delle multinazionali cinesi sono stati uccisi, anche qui nel disinteresse dei media mainstream.
Certo, nel 2018 la Corte dei conti di Quito accusò Correa di cinque reati legati alla svendita del petrolio dell’Ecuador alla Cina in cambio di 15 miliardi di dollari in oscuri finanziamenti e 42 miliardi di debito. Il suo vice finì in carcere mentre lui è stato condannato (con sentenza passata in giudicato nel 2020) a otto anni di galera, motivo per il quale rimane in Belgio ormai da quattro anni.
Come il caso Luiz Inácio Lula da Silva dimostra, la giustizia in Sudamerica può però cambiare idea in tempi rapidi, ma il risultato oggi è che l’Ecuador è così gravato dagli oneri nei confronti di Pechino che le casse pubbliche sono quasi vuote, e Lasso sarà costretto a ristrutturare il debito e a chiedere un salvataggio di 6,5 miliardi di dollari dal Fondo monetario internazionale.
Anche per quanto riguarda il Venezuela e la sua dittatura, Pechino esercita le proprie pressioni e da un decennio ha superato gli Usa, come primo partner commerciale in America Latina. Oltre, naturalmente, ad appoggiare i governi più vicini all’ideologia comunista anche nella repressione e nei settori chiave per la sicurezza e per il controllo sociale. «Qui ormai è tutto cinese, l’80% di tutto quello che si importa è cinese» si sfoga con Panorama Giovanni, un imprenditore italiano che vive a Caracas da 40 anni dove ha una piccola azienda di tessuti che stenta a sopravvivere e ormai si è rassegnato al fatto che quando compera qualsiasi cosa sia «made in China». «Il vaccino? Non c’è neanche quello cinese… L’unico di cui parla regime è quello cubano, che dicono produrranno in Venezuela, ma intanto i mammasantissima del regime si sono già vaccinati tutti con il russo Sputnik».
Nel Paese, dove ormai in contanti tutto si paga in dollari, è stato vaccinato appena l’1% della popolazione, si sottostimano i decessi da virus come il già citato Nicaragua e – siero anti Covid a parte – i cinesi gestiscono e controllano ogni cosa, dalla tecnologia al debito. A Caracas sono cinesi anche tutti gli autobus statali che circolano e i cellulari che si possono comprare nei negozi, dove la multinazionale Huawei domina incontrastata.
La penetrazione è stata graduale, cominciando naturalmente dai 60 miliardi che Pechino ha prestato negli ultimi 10 anni alla dittatura di Nicolás Maduro. Ma l’importanza dell’aiuto cinese lo si è visto soprattutto nelle repressioni del 2017, quando il regime diede l’ultima sterzata in senso dittatoriale creando un Parlamento alternativo sul modello cubano e soffocando nel sangue le proteste.
Per impedire che le marce potessero raggiungere il palazzo presidenziale di Miraflores, Maduro utilizzò 150 tank nuovi di zecca arrivati in tutta fretta da Pechino. Uno di essi investì anche la folla, in una protesta due anni dopo, quando il leader dell’opposizione Juan Guaidó sembrava fosse prossimo a prendere il potere, e le immagini fecero il giro del mondo, ricordando a molti il dramma di Piazza Tienanmen.
In questa geografia dell’espansione sudamericana della Cina il caso più recente è quello del Brasile. Qui il ministro degli Esteri Ernesto Araujo è stato costretto a dimettersi per avere accusato una ex ministra di Dilma Rousseff, Katia Abreu, già onorata anni fa da Greenpeace con il premio «motosega d’oro» per la sua difesa del disboscamento dell’Amazzonia, di fare lobby per Pechino. Dell’Argentina, invece, per sintetizzare l’influenza poderosa di Pechino aumentata durante le presidenze di Cristina Kirchner a Buenos Aires basti ricordare la copertina del settimanale Notícias di cinque anni fa: «ArgenChina».
In cambio, le multinazionali del Dragone che già operano in settori strategici estrattivi del continente (oltre al già citato petrolio dell’Ecuador c’è il litio in Bolivia e grandi quantitativi di niobio in Venezuela e Brasile) ottengono sempre più proteine per sfamare i loro 1,7 miliardi di abitanti. Nonostante la grande crisi causata del Covid e prezzi inarrivabili della bistecca nei Paesi più vicini politicamente a Pechino, l’importazione dall’America Latina di carne bovina e suina nell’ultimo anno ha toccato record mai raggiunti prima.