Home » Attualità » Esteri » Iran, chi soffia sulla rivolta

Iran, chi soffia sulla rivolta

Iran, chi soffia sulla rivolta

La vasta ribellione popolare che chiede la fine del regime viene cavalcata da varie forze straniere, a partire da Israele, Stati Uniti e Paesi sunniti, per i propri interessi contro il nemico comune.


«I servizi di intelligence israeliani dovrebbero essere la punta della lancia: usare il loro potere per indebolire gravemente, scoraggiare coercitivamente e, se fortunati, far crollare il regime iraniano» scrive l’ex brigadiere generale Jacob Nagel, che è stato consigliere per la sicurezza nazionale del premier Benjamin Netanyahu. Il piano dettagliato descritto da Newsweek il 15 novembre la dice lunga sulle possibilità israeliane di cavalcare la rivolta, che sta mettendo alle corde gli ayatollah.

Da metà settembre i manifestanti uccisi sarebbero 451, 18 mila gli iraniani arrestati, 159 le città coinvolte nelle proteste e 143 le università in sciopero. Non ancora una rivoluzione come quella del 1979 ai tempi dello Scià, ma una vasta ribellione popolare che chiede la fine della teocrazia. La guida suprema, il grande ayatollah Alì Khamenei, vede solo complotti ispirati da piccoli e grandi Satana stranieri, ma pure sua nipote, l’attivista Farideh Moradkhani, è stata arrestata per il sostegno alle proteste. Al di là delle ossessive esagerazioni del regime sui manifestanti «strumenti di agende esterne» sono in molti a soffiare sul fuoco. Il piano proposto da Nagel «per indebolire il regime e intensificare le condizioni che un giorno potrebbero portare a un Iran libero» sembrano un film, ma potrebbero diventare realtà: «In primo luogo, Israele dovrebbe intensificare la pressione economica attraverso una campagna di operazioni di influenza all’interno dell’Iran» che punti a una massiccia svalutazione costringendo «il regime a dare fondo alla riserve di valuta pregiata, provocando l’aumento di iraniani arrabbiati che scendono in piazza».

Oltre a una campagna nazionale di scioperi, che sta effettivamente iniziando, secondo Nagel «Israele dovrebbe rendere note informazioni sensibili sulle forze di sicurezza iraniane e sulla responsabilità nella repressione». Come è stato fatto all’inizio, il 16 settembre scorso, con i dettagli della morte di Mahsa Amini – arrestata perché portava male il velo – scintilla scatenante delle proteste. «Qualcuno ha già dimostrato come le capacità di guerra informatica possano aiutare gli iraniani» scrive l’ex generale israeliano. «Hanno preso il controllo dei media iraniani durante la trasmissione di un incontro che coinvolgeva il leader supremo (Khamenei, ndr) mostrando le immagini di (manifestanti) iraniani assassinati. Sono entrati nelle piattaforme di apprendimento in remoto delle università, sfruttandole per addestrare gli studenti a eludere i servizi di sicurezza del regime e moltiplicare le manifestazioni».

Nicola Pedde, esperto di Iran e direttore dell’Institute for Global Studies, afferma che «gli israeliani e molti altri compiono da tempo operazioni coperte in Iran colpendo in maniera mirata il programma nucleare, ma la protesta nasce spontaneamente dall’insoddisfazione di una parte della società iraniana. E neanche il Mossad e tantomeno i sauditi sono in grado di cavalcarla». Il presidente americano Joe Biden, che all’inizio del mandato voleva ricucire con l’Iran sul nucleare, ha cambiato strategia dopo l’invasione dell’Ucraina. «Ora siamo concentrati su altro: scoraggiare e interrompere la fornitura di armi di Teheran alla Russia e sostenere i diritti fondamentali degli iraniani sanzionando i responsabili della repressione» ha dichiarato Robert Malley, inviato speciale Usa giunto a Roma ai primi di dicembre.

Un mese prima il segretario di Stato Antony Blinken incontrava sugli stessi temi il ministro degli Esteri tedesco, Annalena Baerbock, accesa sostenitrice delle proteste. La Germania, che era la nazione preferita da Teheran in Europa, «dovrebbe rivedere gli accordi finanziari con le banche iraniane» secondo l’organizzazione bipartisan americana «Uniti contro il nucleare iraniano». La banca Sepah ha finanziato il programma balistico iraniano. L’istituto Saderat con uffici a Francoforte supporta Hamas, Hezbollah, la Jihad palestinese e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina. La variegata e divisa diaspora soffia con forza sul fuoco della rivolta. L’Organizzazione delle comunità iraniane negli Usa (Oiac) guidata da personaggi come Majid Sadeghpour, ha ingaggiato una società di pubbliche relazioni a Washington. L’obiettivo è favorire «una campagna del Congresso degli Stati Uniti per sostenere le proteste diffuse verso una rivoluzione per una repubblica democratica iraniana».

Il regime accusa importanti media come la Bbc con il suo programma in persiano, Iran international e Voice of America di «propagandare notizie e analisi false» sulle proteste «che vengono riprese dalla maggior parte delle testate italiane». La bestia nera degli ayatollah è Masih Alinejad, bollata dal regime come «portavoce della propaganda di Washington utilizzata dalla Cia». L’attivista iraniana che vive in esilio dichiara: «Quello che vedo mi ricorda il momento in cui le persone hanno iniziato a demolire il muro di Berlino». Tra il 2015 e il 2022, l’Agenzia statunitense per i media globali, che «informa, coinvolge e connette le persone di tutto il mondo a sostegno della libertà e della democrazia» ha finanziato le attività di Alinejad con 628 mila dollari. L’attivista iraniana è stata la prima a rilanciare con una serie di tweet l’uccisione di Mahsa Amini, che hanno innescato la protesta. Il 16 settembre l’hashtag «#Mahsa è stata uccisa dalla polizia (addetta al controllo) del velo della Repubblica islamica dell’Iran» è diventato virale.

«La diaspora e personaggi come Alinejad cavalcano l’onda soprattutto dal punto di vista mediatico, ma dentro l’Iran influiscono poco sui manifestanti» osserva Pedde. «I social sono il vero veicolo della protesta a cominciare da TikTok».Non è un caso che Elon Musk, neo patron di Twitter, stia cercando di infiltrarsi in Iran con il sistema satellitare Starlink, utilizzato anche in Ucraina, per l’accesso libero a internet.

Amini, la giovane martire simbolo della rivolta, era curda. Gran parte delle proteste si concentrano nelle città del Kurdistan iraniano e si sono estese al Baluchistan abitato da arabi, fomentati, secondo Teheran, dai servizi segreti sauditi. Il Partito democratico curdo si batte per un Iran «libero e democratico». Le sue basi nel Kurdistan iracheno sono state bombardate con artiglieria e droni a più riprese dai Guardiani della rivoluzione dopo l’inizio delle proteste. Gli americani hanno abbattuto un drone iraniano su Erbil, il capoluogo del nord dell’Iraq dove si trova il grosso delle truppe italiane che addestrano i curdi. Mehran Mostafadi, rifugiato politico in Francia dal 1981 e docente di Fisica all’Università di Paris-Saclay, prospetta un «Iran che mantenga la stabilità con la religione separata dalla politica ma non criminalizzata, evitando le interferenze straniere nella transizione».

© Riproduzione Riservata