Iniziative diplomatiche per la fine del conflitto in Ucraina, ricerca di un equilibrio con Washington dopo la vicenda dei palloni-spia nei cieli americani, nuovo impulso alla via della Seta. La Cina cambia il suo approccio e cerca sponde internazionali, dopo lo stop imposto dalla pandemia. Che oltre a isolarla ha causato la forte frenata del Pil nazionale.
Un po’ come se seguisse le sorti del suo misterioso pallone-spia, sforacchiato da un jet americano e precipitato al largo della Carolina del Sud, la Cina di colpo sembra impegnata a sgonfiare la grande bolla propagandistica fatta di forza, aggressività, durezza, dilatata dagli ultimi cinque anni del regno di Xi Jinping. Il regime aveva fatto troppi passi falsi, del resto, per non essere costretto a qualche correzione di rotta. Lo scarto più impressionante ha riguardato il Covid. Nessuno sa quanti siano stati i morti cinesi per il coronavirus: il New York Times ha appena stimato tra un milione e un milione e mezzo di decessi, malgrado mesi di durissime restrizioni, gestite con brutalità militare.
Da dicembre, improvvisamente, Pechino le ha annullate tutte. A consigliarlo sono state di certo le diffuse e crescenti proteste di piazza, inedite nella storia della Repubblica popolare (e mai viste prima in Occidente). A spingere per l’apertura, però, è stato soprattutto il rallentamento dell’economia: fra il terzo e il quarto trimestre il Pil cinese ha frenato dal 3,9 al 2,9 per cento. Per lo stesso motivo, oggi, pare finita in archivio anche la «grande purga» che il Partito comunista aveva avviato nel 2021 contro una dozzina di colossi industriali e dell’e-commerce, da Alibaba a Tencent, che Xi aveva colpito perché si sentiva minacciato dalla popolarità dei loro capi (a partire da Jack Ma): a inizio febbraio, di colpo, la Banca del Popolo ha annunciato di aver chiuso «la campagna di rettificazione» che aveva sottoposto quelle società a un’occhiuta sorveglianza politica, imponendo loro multe miliardarie e spesso depotenziandole in uno «spezzatino» industriale.
L’ipocrisia dell’espressione usata dai cinesi fa venire in mente quella impiegata un anno fa da Mosca per l’invasione dell’Ucraina, presentata al mondo come «operazione militare speciale». Ma anche con la Russia, all’improvviso, Xi ha adottato un ambiguo cambio di passo. All’inizio del conflitto, la Cina si era perfettamente allineata alla Russia. Il 4 febbraio 2022, cioè 20 giorni prima che i carri armati di Vladimir Putin penetrassero nel Donbass, Putin e Xi si erano incontrati a Pechino per l’inaugurazione delle Olimpiadi invernali, e qui avevano siglato un patto di ferro: avevano sancito «un’alleanza senza limiti» e in ogni campo, dagli scambi economici alle strategie culturali, fino alla cooperazione militare. Quel patto per un anno è stato rispettato da Xi con il totale silenzio sulla guerra in Ucraina, sostenendo gli interessi di Mosca in tutte le riunioni dell’Onu (la Cina ha sempre votato contro la condanna dell’invasione) e soprattutto con potenti incrementi negli acquisti di prodotti energetici russi.
Bloomberg calcola che tra marzo e ottobre 2022, in cambio di petrolio, gas e carbone, Pechino abbia versato a Mosca 60-70 miliardi di dollari, sorreggendo l’economia dell’alleato contro le sanzioni occidentali. E le ha venduto tecnologia. Forbes ha stimato un totale di 20 miliardi di dollari tra componenti hi-tech e semiconduttori made in China (anche se spesso difettosi), che hanno in parte compensato il blocco mondiale imposto all’export verso la Russia. Non basta. Pochi giorni fa il Wall Street Journal ha rivelato che quattro società statali cinesi della difesa – Avic, Poly, Fujian Nanan Baofeng e Sinno – anno inviato in Russia «decine di migliaia di spedizioni» di prodotti «duali», cioè potenzialmente destinate a un uso bellico. È un elenco impressionante, che vale svariate decine di milioni di dollari: «attrezzature per la navigazione degli elicotteri, droni, sistemi di jamming (cioè tecnologie per il disturbo radio, ndr), componenti per aerei da caccia…».
Anche qui, di colpo, qualcosa è cambiato. Prima, in dicembre, Pechino ha bloccato l’export di chip verso l’alleato. Oggi, due mesi dopo, Xi parrebbe aver mutato i toni anche sull’appoggio all’avventura bellica russa. Il 17 febbraio, in visita a Roma, il capo della diplomazia del Partito comunista Wang Yi ha dichiarato per la prima volta che nella guerra tra Russia e Ucraina «bisogna trovare una soluzione accettabile per tutti». Quindi anche per Kiev. A Mosca, Wang ha detto che la Cina «è disposta a mediare per una pace giusta». Com’è accaduto tutto questo? Per capire «la Grande retroMarcia» di Xi, bisogna guardare a Washington. In novembre gli Stati Uniti hanno sparato contro la il gigante asiatico un colpo ben più duro di quello che qualche mese dopo ne avrebbe bucato il pallone-spia: Joe Biden ha bloccato l’export di ogni tecnologia avanzata, in particolare la vendita di semiconduttori. Da allora, nessuna azienda americana può più intrattenere rapporti con i produttori di chip cinesi. La misura prende di mira anche i grandi macchinari per stampare i circuiti più avanzati, fondamentali per l’industria civile di Xi come per quella militare, specie per i futuri sistemi d’arma nello spazio. Peggio di quanto avesse mai deciso di fare Donald Trump nelle sue guerre commerciali.
Sarà forse per questa nuova rigidità americana, sarà anche perché Biden sull’Ucraina ha rinsaldato la Nato, ma dopo anni di prove muscolari e di continue «invasioni aeree dimostrative» nello spazio di Taiwan, all’improvviso Pechino ha spento i megafoni anche sulla «inevitabile riunificazione della Cina», di cui fino a ieri Xi aveva fatto il suo mantra di ogni discorso. I piani d’invasione, ora, sembrano tornati nei cassetti dell’Esercito popolare di liberazione. Ma queste non sono certo novità, nella condotta diplomatica cinese. Il regime ha sempre reagito in modo simmetrico alle iniziative occidentali, avanzando quando non incontrava resistenze, frenando di fronte alla fermezza. Così la strategia pare tornata quello di pochi anni fa: fare breccia nell’Occidente e dividere gli alleati. Nelle ultime settimane la diplomazia di Pechino è tornata a corteggiare Roma, Parigi e Berlino e Budapest, riesumando la «Belt road iniziative» (nel 2019, il governo del leader grillino Giuseppe Conte era stato il primo e unico a ratificarne i trattati) e a tutti gli Stati europei propone il miraggio di business miliardari sulla nuova Via della seta. La strategia di Xi è creare un solco tra gli Stati europei, ma soprattutto tra Europa e Stati Uniti. Molto più efficace di qualsiasi pallone-spia.
