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La pax cinese è tutt’altro che pacifica

La pax cinese è tutt’altro che pacifica

La spinta diplomatica di Pechino serve soprattutto a contenere una frantumazione dell’Eurasia. Ma i primi a nutrire dubbi e sospetti su di essa sono russi e iraniani.


Alla tesi di una Cina campione di diplomazia si contrappone la controtesi di una Cina in affanno dopo una complessa fase di isolamento, e di rapporti compromessi con importanti interlocutori: Unione europea, Regno Unito, Giappone. La Cina che si proietta sul proscenio globale teme che la Russia tracolli davanti alla controffensiva ucraina di primavera, avviando una dinamica centrifuga di cui si intravede l’inizio ma non la fine.

Xi ha paura: ha interesse a logorare l’Occidente e distrarre risorse Usa dal Pacifico, ma sa che Joe Biden vuole presentarsi vittorioso alle prossime presidenziali statunitensi, e teme un vero pandemonio in Eurasia. Di qui l’ansia cinese di «congelare» il conflitto in Ucraina con mediazioni diplomatiche e crescenti pressioni dietro le quinte. Ma agli occhi dei più stretti alleati di Pechino – Mosca e Teheran – questa pax non si configura affatto come una più o meno beata condizione di pace e quiete, bensì come un rapporto di sottomissione e la rinuncia a spazi di autonomia.

Solo il tempo potrà dirci di cosa abbiano discusso Vladimir Putin e Xi Jinping nel corso del loro recente incontro a Mosca. Al netto dei comunicati ufficiali a uso e consumo dei rispettivi apparati di propaganda, si notano diverse crepe nell’intonaco dell’«amicizia senza limiti» sino-russa. I mezzi di stampa russi hanno per esempio tradito una certa sorpresa in occasione dell’accordo saudita-iraniano propiziato da Pechino. Da settimane a Mosca scrutano con crescente fastidio l’attivismo frenetico del presidente cinese in Medio Oriente. La visita di Xi in Arabia Saudita dello scorso dicembre, come pure il viaggio del presidente iraniano Ebrahim Raisi a Pechino lo scorso febbraio, sono stati analizzati meticolosamente. Il timore è infatti che venga meno una delle principali leve strategiche russe, quella del «divide et impera» nel Golfo.

Mosca accetta con fatica la rinuncia ai propri abituali e repentini cambi di velocità in Medio Oriente. Senza contare che una distensione tra sauditi e iraniani potrebbe riverberarsi sulle vendite russe di idrocarburi. L’accordo, inoltre, potrebbe indurre Teheran ad applicare maggiore cautela nelle forniture di missili balistici e droni alla Russia, che Mosca utilizza in Ucraina. Nel complesso assistiamo a una situazione singolare e priva di precedenti.

Per un verso, occorrerà attendere il dispiegarsi degli effetti negli accordi irano-sauditi per capire se quello cinese sia un vero successo diplomatico. Ci vorrà tempo. E le possibilità che qualcosa vada storto sono elevate. Come corollario dell’accordo sino-saudita-iraniano, per esempio, gli arabi potrebbero pretendere da subito un disimpegno iraniano in Siria. Il presidente Bashar al-Assad sarebbe così nuovamente accolto nel consesso delle nazioni mediorientali, ma in cambio dovrebbe affrancarsi dalle potenze che ne puntellarono il regime. Per alcuni aspetti, il processo sembra già avviato. Assad ha di recente visitato l’Oman, che non ha mai davvero interrotto i rapporti con Damasco, così come gli Emirati Arabi Uniti, che aveva già visitato nel marzo dello scorso anno. In entrambi i casi si è incontrato con Mohammed bin Zayed Al Nahyan, lo stratega emiratino.

A queste esplorazioni diplomatiche si aggiunge il viaggio a Damasco di una corposa delegazione parlamentare mista (Iraq, Giordania, Palestina, Libia, Egitto, Oman e Libano) all’indomani del devastante terremoto che ha colpito la Siria. Nel febbraio scorso, poi, alla Munich Security Conference, il ministro degli Esteri saudita Faisal bin Farhan Al Saud ha dichiarato che è ormai necessario un nuovo approccio verso la Siria. Le condizioni poste per il disgelo sono chiare: un rapporto meno conflittuale di Assad con le forze di opposizione, la mannaia che cala sul traffico di stupefacenti e una decisa compressione del ruolo iraniano in Siria. Pensare che queste condizioni scompaiano per effetto dell’accordo mediato dai cinesi è ingenuo. Anche in Libano, Paese straziato da divisioni sanguinose tra sunniti e sciiti, la situazione non promette di risolversi rapidamente. Il Paese dei cedri è a tal punto diviso che, a mesi dalla fine del mandato del presidente della Repubblica Michel Aoun, non si è ancora riusciti a trovare un accordo sul suo successore. Per un altro verso, russi e iraniani, «soggetti» con una marcata e secolare personalità geopolitica, rischiano di sentirsi trasformati dall’oggi al domani in «oggetti» nelle mani di Pechino. È inevitabile che, nelle verticali di potere a Mosca e Teheran, un simile stato delle cose non venga accettato pacificamente.

L’autore, Francesco Galietti è un esperto di scenari strategici e fondatore di Policy Sonar

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