È un autentico caos politico quello in cui è precipitato il Nepal. Un caos politico dalle significative ripercussioni internazionali. Lo scorso dicembre, l’attuale primo ministro, Khadga Prasad Sharma Oli, ha sciolto il parlamento, indicendo nuove elezioni per la prossima primavera. Una mossa, quella del premier, seguita a mesi di lotte interne al suo stesso schieramento, il Partito comunista nepalese.
Le polemiche tuttavia non mancano, visto che – secondo gli avversari di Oli – la sua azione risulterebbe incostituzionale: è del resto atteso un pronunciamento della locale Corte Suprema su questa questione. Una questione che ha suscitato anche tensioni di piazza. A inizio febbraio, è stato per esempio organizzato uno sciopero contro Oli, mentre si sono verificati anche degli scontri: alcuni giorni fa, almeno settantasette manifestanti sono stati arrestati dalla polizia a Kathmandu.
Tuttavia, prima di analizzare che cosa questa situazione possa significare sul piano internazionale, è forse utile capire come si sia arrivati a questo punto. L’attuale Partito comunista nepalese è formalmente nato nel 2018 dalla fusione di due precedenti partiti comunisti, il Partito maoista (guidato dall’ex premier Pushpa Kamal Dahal) e il Partito marxista-leninista unito (dello stesso Oli). Questi due schieramenti si erano d’altronde coalizzati già in occasione delle elezioni del 2017: elezioni che avevano vinto contro il Partito del Congresso nepalese (di ispirazioni socialdemocratica). Sennonché le tensioni nel nuovo schieramento comunista non hanno tardato a manifestarsi. Nonostante Oli e Dahal avessero deciso di governare a turno nell’arco di cinque anni (una sorta di staffetta), Oli – diventato primo ministro – ha man mano rafforzato il proprio potere, creando in questo modo preoccupazioni e tensioni interne. Appena entrato in carica, il nuovo premier ha concentrato nelle proprie mani una maggiore autorità: dalla politica estera alla sicurezza nazionale, passando per le questioni economiche. In particolare, Oli ha avocato a sé la gestione dell’intelligence, oltre al le agenzie preposte al contrasto delle frodi fiscali e del riciclaggio di denaro. Tutto questo, mentre sono stati adottati provvedimenti che – secondo i critici – avrebbero introdotto alcune limitazioni alle libertà civili.
Le apprensioni nel partito sono man mano montate, fin quando – nell’aprile 2020 – è esplosa una grave crisi politica interna. Ad Oli veniva contestata una linea giudicata troppo autoritaria, oltre a una gestione non particolarmente brillante della pandemia di Covid-19. Il Partito comunista nepalese ha rischiato quindi di spaccarsi: uno scenario che la Cina è prontamente intervenuta per scongiurare. Lo scorso maggio, l’ambasciatrice cinese in Nepal, Hou Yanqi, incontrò – secondo il Kathmandu Post – i leader dello schieramento proprio per spingerli ad evitare una scissione. In quegli incontri, pare che la diplomatica abbia invocato l’unità dello schieramento anche per assicurarsi il suo appoggio nelle crescenti tensioni geopolitiche che si stavano all’epoca verificando tra Pechino e l’amministrazione Trump a causa del coronavirus. È del resto dal 2008 che la Cina fa sentire il proprio peso politico all’interno del Nepal: un peso politico che, per la Repubblica popolare, risulta essenziale – come vedremo – in termini di dinamiche internazionali. Il Dragone riuscì quindi d’un soffio a impedire l’esplosione del partito che, in Nepal, costituisce non a caso il suo principale interlocutore (e alleato) politico. Sennonché la tregua interna è durata poco. Le tensioni sono presto riprese, fin quando Dahal ha presentato una mozione di sfiducia contro Oli: una mossa, a cui il premier ha replicato il 20 dicembre scorso, ottenendo di fatto lo scioglimento del parlamento per indire nuove elezioni (da tenersi in due tornate, il 30 aprile e il 10 maggio).
Ed è qui che veniamo alle complicate ripercussioni geopolitiche di questa situazione. L’attuale caos interno al Nepal costituisce un problema non di poco conto per la Cina che – come detto – considera il Partito comunista nepalese la sua principale sponda all’interno del Paese. Proprio Oli ha, del resto, perseguito in questi anni una politica di allontanamento dall’India, per avvicinarsi sempre di più a Pechino. È quindi proprio Nuova Delhi che sta guardando con non poco compiacimento a quanto sta accadendo in queste settimane in Nepal: ricordiamo del resto che le dinamiche politiche nepalesi si inseriscano nel più ampio quadro della disputa sino-indiana sul confine himalaiano. Pechino, dal canto suo, non è solo preoccupata della scissione in sé stessa di un partito amico, ma – più in generale – dell’instabilità politica che si sta verificando nell’area. Non sarà del resto un caso che, a fine dicembre, il viceministro del Dipartimento internazionale del Partito comunista cinese, Guo Yezhou, si sia recato in loco, per tentare di scongiurare una scissione del Partito comunista nepalese. In tutto questo, va anche sottolineata la posizione silente degli Stati Uniti che – come notano svariati analisti – non vedono certo male quanto sta accadendo in Nepal. Washington sa che una tale situazione rappresenti una grana per Pechino. E non è escluso che il caos nepalese possa spingere lo Zio Sam a rilanciare la convergenza con Nuova Delhi (come ai tempi di Trump).
