Nella domenica di sangue nell’ex Birmania, prese d’assalto fabbriche cinesi e feriti cittadini della Repubblica popolare. Un episodio che, come spiega la ricercatrice Ispi Giulia Sciorati, si inserisce in una tendenza che si sta manifestando in tutto il continente asiatico.
Da Londra, Mark Farmaner, direttore della Burma Campaign UK, definisce gli attacchi alle fabbriche cinesi in Myanmar come una provocazione della Giunta militare. «Sembra ingenuo da parte dell’ambasciata cinese prendere per buone le affermazioni della dittatura militare, secondo cui i manifestanti avrebbero dato fuoco alle fabbriche» dice a Panorama. «Molti attivisti nel Paese credono che potrebbero essere stati i militari a farlo, per cercare di manipolare la Cina, inducendola a sostenerli di più, dopo che Pechino ha accettato due dichiarazioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite».
Resta il fatto che il 14 marzo è stato uno dei giorni più bui del Myanmar dopo il colpo di Stato dei militari, avvenuto lo scorso primo febbraio. Le forze di sicurezza hanno ucciso almeno 38 persone e alcune fabbriche finanziate da Pechino sono state incendiate. E al termine di questa domenica di sangue la Giunta ha dichiarato la legge marziale in sei aree del Paese.
Le maggiori vittime si sono registrate in un sobborgo industriale della città più grande città del Paese, l’ex capitale Yangon, dove militari e polizia hanno aperto il fuoco su manifestanti disarmati. Secondo il gruppo di difesa dell’Associazione di assistenza ai prigionieri politici (Aapp), ne sono morti almeno 22. Almeno altre 16 persone sono state uccise in altre regioni del Paese. Uno spargimento di sangue che porta il bilancio complessivo delle vittime dal giorno del golpe a oggi a quota 126 persone, secondo i calcoli dell’Aapp.
Ma oltre ai morti, a preoccupare le cancellerie internazionali ci sono gli attacchi ai cinesi. L’ambasciata di Pechino in Myanmar ha dichiarato che, durante le proteste del 14 marzo, diverse fabbriche finanziate dalla Cina sono state distrutte e incendiate nella zona industriale di Yangon. E sono stati feriti anche alcuni cittadini cinesi.
Non è chiaro chi siano gli autori di tali attacchi, anche perché nessun gruppo li ha rivendicati. Eppure, fin dal giorno del golpe, gli oppositori hanno mostrato rancore nei confronti della Cina. In varie occasioni, i dimostranti hanno preso di mira l’ambasciata cinese a Yangon, accusando Pechino di sostenere il colpo di Stato e la Giunta militare.
«Diciamo che la Cina ha risposto al colpo di Stato e alle proteste nel Paese con l’atteggiamento che è tipico della sua politica estera, cioè di non interferenza» commenta Giulia Sciorati, ricercatrice del programma Asia dell’Ispi ed esperta di ex Birmania. «Pechino di fatto ha detto che quello che sta succedendo in Myanmar è un affare interno del Paese, per cui la Cina non si espone. Allo stesso tempo, all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha messo il veto alla possibilità di sanzioni alla Giunta militare. Questo ovviamente ha creato la sensazione, da parte della società civile birmana, che questo partner importantissimo per le sue relazioni economiche di fatto non aiuta il Paese a portare avanti la sua transizione democratica».
Eppure, nonostante non abbia condannato apertamente il golpe, la Repubblica popolare cinese ha appoggiato una dichiarazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dicendo che «condanna fortemente la violenza contro i manifestanti pacifici» e ha invitato i militari a «esercitare la massima moderazione».
«È vero che Pechino ha sostenuto questa presa di posizione» ammette Sciorati, «ma è una cosa diversa. Un conto è parlare di violenza sui manifestanti, un altro è prendere posizione contro il colpo di Stato di per sé: e la Cina questo non lo ha fatto». Quindi la popolazione ha la percezione che Pechino di fatto sostenga la Giunta? «Sì, o per lo meno che la Cina non si espone contro quello che è un blocco al processo democratico e all’evoluzione del Paese» risponde Giulia Sciorati. «E, non esponendosi, non fa altro che aiutare la Giunta militare».
La ricercatrice Ispi non è però in grado di dire chi sono gli autori di questi attacchi anti-cinesi. «Bisognerebbe parlare con qualcuno sul campo. In ogni caso potrebbero essere stati piccoli gruppi poco organizzati ad aver dato il via a queste proteste» spiega. «Certo è che, già nelle scorse settimane, nel network della società civile birmana si percepiva una tensione crescente nei confronti della Cina che non si è opposta al colpo di Stato. Che stesse aumentando la pressione anti-cinese, insomma, era evidente».
Eppure il direttore di Burma Campaign ha detto a Panorama che in Myanmar molti attivisti sostengono che sono stati i militari a dar fuoco alle fabbriche cinesi… «Ribadisco: io non essendo sul campo non sono in grado di prendere una posizione» concede la ricercatrice. «Però non è così infondata l’idea che possano essere stati gruppi della società civile ad arrivare a questi estremi. E non sarebbe un fatto senza precedenti».
Già, perché i moti del Myanmanr sono la punta di un iceberg più ampio. Le proteste anti-cinesi si inseriscono in una tendenza che nel recente passato si è manifestata in tutto il continente asiatico. «La questione del sentimento anti-cinese in Asia non è una novità. Durante la pandemia cicli di questo atteggiamento si sono visti in varie parti dell’Asia. Nella prima fase, la scorsa primavera, il malcontento contro Pechino è saltato fuori in modo evidente in Giappone e in Corea del Sud, perché la Cina non riconosceva la sua responsabilità nei confronti di Covid-19» osserva Giulia Sciorati. «Ma negli anni precedenti s’erano verificate contestazioni anti-cinesi sia nel Sud-Est asiatico, vedi Malesia, sia nell’Asia centrale, vedi Kazakistan e Kirghizistan». Minimo comun denominatore di tutte queste proteste: gli ingombranti progetti di Pechino per la Nuova via della seta.
Intanto, mentre le proteste continuano in tutto il Myanmar, un gruppo di parlamentari estromessi dai militari ha giurato di perseguire una «rivoluzione» per rovesciare la giunta al potere. Con la leader Aung San Suu Kyi e il presidente Win Myint agli arresti domiciliari, gli ex parlamentari hanno formato un esecutivo (civile) parallelo, che sta cercando di ottenere il riconoscimento internazionale come governo legittimo del Paese.
