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Myanmar: ritorno al passato per i militari in affanno

Myanmar: ritorno al passato per i militari in affanno

Il colpo di Stato è l’estremo tentativo della giunta militare birmana di rafforzare il suo potere, indebolito dalle ultime elezioni parlamentari. Come spiega in quest’intervista Giulia Sciorati, ricercatrice Ispi esperta dell’ex Birmania.



Myanmar: ritorno al passato per i militari in affanno
Dimostranti contro il golpe con il ritratto di San Suu Kyi davanti all’ambasciata birmana di Bangkok  il 4 febbraio 2021 (Getty Images).
Dimostranti contro il golpe con il ritratto di San Suu Kyi davanti all’ambasciata birmana di Bangkok il 4 febbraio 2021 (Getty Images).


«La prima considerazione da fare, non abbastanza chiarita sulla stampa italiana, riguarda lo stereotipo sul Myanmar, che si sarebbe mosso negli ultimi 10-12 anni verso una “transizione democratica”». Esordisce così Giulia Sciorati, ricercatrice del programma Asia dell’Ispi. Attenta osservatrice dell’ex Birmania, Panorama l’ha intervistata sulle vere ragioni del colpo di Stato del primo febbraio in Myanmar, che ha portato all’incarcerazione della leader Aung San Suu Kyi, poi trasferita ai domiciliari.

Perché dice che la tanto decantata «transizione democratica» del Myanmar è uno stereotipo?

«Perché fa parte della retorica che arriva dagli Stati Uniti. Le cose sono un po’ diverse. La giunta militare è a capo, più o meno informalmente, del Paese dal 1962. E quella che viene identificata come transizione democratica in realtà è una parentesi di riforme e di concessioni, dove di fatto Aung San Suu Kyi e la Lega nazionale per la democrazia hanno cercato di trovare un equilibrio fra le riforme democratiche e la presenza di una giunta militare. Alla base della vita politica in Myanmar c’è questo contrappeso fra la giunta militare e i partiti della società civile, fra cui la Lega nazionale per la Democrazia, guidata proprio da Aung San Suu Kyi».

Ma come mai i militari sono arrivati al colpo di Stato?

«A partire dal 2011, la giunta militare aveva fatto concessioni nei confronti della società civile, autorizzando elezioni parlamentari e alcune riforme all’interno del Paese attente al sociale. Lo si deduce anche analizzando l’Indice di democrazia dell’Economist intelligence unit, da cui risulta che, a partire da dieci anni fa, l’indice di democrazia del Myanmar ha incominciato a salire. Questo perché la giunta militare di fatto ha un po’ alleggerito il peso della dittatura, accettando riforme politiche e soprattutto autorizzando le elezioni».

Ma ha accettato le riforme perché costretta, vero?

«Assolutamente. Lo scorso novembre, poi, ci sono state le elezioni parlamentari, in cui correva il partito di Aung San Suu Kyi, la Lega nazionale per la democrazia. Poi c’era un altro partito, l’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo, che è l’espressione politica della giunta militare,. L’esercito si aspettava che Aung San Suu Kyi e la Lega nazionale per la democrazia vincessero le elezioni, proprio perché il premio Nobel all’interno del Paese è molto apprezzata. Tuttavia non si aspettava un tale sbilanciamento fra il risultato del suo partito e quello di Aung San Suu Kyi, che ha preso l’83% delle preferenze. Visto che si tratta di seggi in Parlamento, la Lega nazionale per la Democrazia ha preso 396 seggi su 476, mentre il partito dei militari ne ha presi solo 33».

Quindi i militari sono stati spiazzati da questo risultato.

«Quando hanno visto questo sbilanciamento, hanno avuto paura di perdere il controllo (che hanno sempre avuto e hanno tuttora) del Paese».

Quindi è sbagliato dire che i militari hanno ripreso il controllo del Myanmar: l’hanno sempre avuto.

«Assolutamente sì. Negli ultimi anni avevano accettato una condivisione del potere, che ha rappresentato un passo verso la democrazia (questo è innegabile). Però, agli occhi dei militari, il nuovo assetto tendeva troppo verso la società civile e la sfera civile della politica birmana».

Dopo il voto cos’ha fatto l’esercito?

«Si è rivolto alla Corte costituzionale, lamentando i brogli alle elezioni parlamentari. Il fatto che la Corte non si sia mossa eccessivamente per investigare su tale accusa ha poi portato al colpo di Stato».

Ma i brogli ci sono stati o no?

«Allora… Questo è un altro capitolo molto dibattuto. La stessa comunità internazionale, per bocca degli osservatori elettorali, ha segnalato incongruenze e controversie nelle operazioni di voto, ma non di una gravità tale da andare a influenzare il processo elettorale vero e proprio e in particolar modo il risultato. Ma c’è un altro aspetto. Un grande problema del Myanmar è la questione etnica: il Paese è iper-frammentato. Noi tutti conosciamo la situazione dei rohingya, anche se la minoranza islamica non è l’unica presente nel Paese. Durante le elezioni, che si sono svolte nel corso di una delle peggiori crisi sanitarie di tutti i tempi, in alcuni Stati, soprattutto quelli delle minoranze, non tutti i cittadini hanno avuto la possibilità di votare».

È una delle accuse.

«Esatto. Allo stesso modo non è stato trovato il modo per far sì che in questo Paese a maggioranza buddhista la minoranza musumana dei rohingya esprimesse la propria preferenza elettorale. Quindi che le elezioni in Myanmar non siano state al 100% trasparenti è un dato di fatto. Però, ribadisco, i rapporti degli osservatori elettorali confermano che, sebbene ci siano state incongruenze, non erano di un’entità tale da poter ribaltare il risultato elettorale».

Però Aung San Suu Kyi aveva difeso i militari dalle accuse di genocidio dei rohingya persino all’Aja. Cos’è successo? Si è rotto un equilibrio fra lei e i militari?

«Allora… Anzitutto la questione della Corte Penale dell’Aja sul caso dei rohingya non era solo un attacco alla giunta militare, ma era un’accusa a tutto il Paese e alla sua leadership. Non dimentichiamo che il genocidio dei rohingya è avvenuto in un momento in cui il partito di Aung San Suu Kyi era a capo del Paese».

Appunto: Aung San Suu Kyi ha gravi responsabilità…

«Sì. E si riverberano sulla questione del suo premio Nobel: adesso ci sono recriminazioni internazionali sulla legittimità o meno di questo premio. Io però non penso che sia stata una frattura fra Aung San Suu Kyi e la giunta militare a portare al golpe. A mio avviso il colpo di Stato è stato proprio l’effetto del risultato elettorale. A pesare sono state la disparità nelle preferenze di voto e il fatto che la Corte costituzionale birmana abbia in parte tergiversato rispetto alle accuse mosse dalla giunta militare. Le elezioni non sono state annullate, per dirla terra a terra. Al contrario, questa settimana il Parlamento avrebbe dovuto riconoscere il risultato elettorale e autorizzare il nuovo governo. Tutto questo ha fatto sì che la giunta militare, basandosi sulle accuse di brogli elettorali, chiamasse il colpo di Stato».

Ma si può dire che prima dell’arresto Aung San Suu Kyi era alleata dei militari?

«Per certo possiamo dire che nell’amministrazione del Paese San Suu Ky ha dovuto avere a che fare con la giunta militare e ha sicuramente subito pressioni. Il punto è sempre quello: non è che la giunta non avesse niente da dire sulla vita politica del Paese prima del golpe».

Qui volevo arrivare.

«I militari sono sempre stati presenti nella vita politica del Myanmar. Hanno per esempio dei ministeri a loro dedicati. Un dettaglio in più è che il numero così grande di seggi acquisiti dalla Lega nazionale per la democrazia nel Parlamento birmano poteva far traballare la norma della Costituzione che prevede che Aung San Suu Kyi non possa diventare presidente del Paese perché ha figli con passaporto straniero».

Una norma ad personam…

«Sì, è stata inserita in Costituzione proprio per lei. E dopo le elezioni, i militari temevano che venisse varata una riforma della Costituzione per far diventare Aung San Suu Kyi presidente. Riforma che sicuramente avrebbe comportato anche un indebolimento del potere della giunta».

Formalmente Aung San Suu Kyi era Consigliere di Stato. Di fatto era il Primo ministro?

«No. Diciamo che era una leader de facto».

Premier de facto?

«Sì, la possiamo definire così».

E si può dire che ora i militari hanno ripreso il pieno controllo del Paese?

«Assolutamente sì. La giustificazione che hanno dato si rifà sempre alla Costituzione birmana. L’articolo 417 di fatto dice che, se vengono identificate minacce alla sicurezza nazionale che potrebbero portare alla disintegrazione dell’Unione (il Myanmar è un’unione di diversi Stati), il presidente viene chiamato a proclamare uno Stato di emergenza».

E quindi?

«Quindi tutti i poteri vengono trasferiti al capo delle Forze armate. Questa è la giustificazione usata per il golpe e questo è il motivo per cui adesso i militari hanno il controllo del Paese».

E ora, che cosa succederà ad Aung San Suu Kyi e al Myanmar?

«È improbabile che la leader venga rimessa agli arresti domiciliari per altri 15 anni, com’era avvenuto in passato, proprio per il peso della sua figura. Quanto al Paese, se vogliamo fare un paragone credo che potremmo vedere un Myanmar più vicino al modello thailandese, dove c’è un connubio fra vita politica, sociale e militare, in cui però sono i militari ad avere il controllo. In pratica, un passo indietro sulla questione delle riforme».

C’è chi sostiene che Aung San Suu Kyi sia politicamente finita. Che cosa ne pensa?

«Dipende dai punti di vista. In realtà, il suo ruolo futuro è tutto da vedere. Sicuramente i militari hanno scelto di ridimensionarla, proprio a causa del suo successo elettorale. In realtà lei ha un forte consenso interno e rimane una figura internazionale, apprezzata per tanti versi. Il fatto di rimetterla in prigionia potrebbe portare veramente a reazioni forti. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno già minacciato sanzioni, cosa che il Myanmar non si può assolutamente permettere».

Ma lei che giudizio dà dell’operato di San Suu Kyi?

«Anzitutto non è operato solo suo, ma di tutto il partito. Indubbiamente le riforme politiche degli ultimi anni hanno innalzato il livello di democrazia del Paese. E questo è un dato di fatto. Detto ciò, io non mi sento di dire che San Suu Kyi ha fatto un buon lavoro in toto, perché la questione dei rohingya (come quella di tutti i gruppi etnici del Myanmar) non si può ignorare. Di fatto la Corte penale internazionale l’accusa quasi di genocidio. E questo rimane il punto focale del suo operato».

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