Il «Buddha vivente» Tenzin Gyatso ha quasi 86 anni e si pensa alla sua successione. Dovrebbe reincarnarsi in un bambino, ma la Cina vuole decidere per legge chi sarà, mentre India e Stati Uniti spingono per altre soluzioni. Tra antichi riti e giochi di potere, una questione spirituale è diventata affare geopolitico.
Alti funzionari della sicurezza indiana, tra cui componenti dello stesso gabinetto del primo ministro Narendra Modi, avrebbero preso parte a riunioni segrete per decidere come influenzare la scelta del prossimo Dalai Lama. La notizia data dall’americana Bloomberg pochi giorni fa è passata quasi inosservata, ma è il piccolo indicatore di un tema che sta dividendo le grandi potenze – Cina, Stati Uniti, India – e al cui centro c’è lui: Tenzin Gyatso.
È un essere semi-divino, quattordicesima reincarnazione del Buddha, emanazione dell’Avalokiteshvara dell’Infinita Compassione, massima autorità spirituale per mezzo miliardo di fedeli (oltre a essere quasi un’icona pop per tanti occidentali). Ma il 6 luglio compirà 86 anni e il passaggio della sua illuminazione a un altro corpo, soprattutto dopo un brutto ricovero subìto nel 2019, non è più tabù. Chi gli succederà?
Per tradizione si dovrebbe scegliere un bambino. L’attuale Dalai Lama aveva due anni quando compresero che era il predestinato, ma a oggi c’è grande confusione su come, quando e anche se sarà selezionato il quindicesimo Buddha. L’unica cosa certa è che l’attenzione è altissima e coinvolge la geopolitica, oltre che la religione.
Per intenderne i perché, serve ricordare le coordinate storiche e geografiche di un luogo chiave, il Tibet. Quella che oggi è una Regione autonoma cinese occupa un’area grande quanto Italia, Germania e Francia messe insieme a nord della catena dell’Himalaya, ed è stata ribattezzata sia «tetto del mondo» (ha un’altitudine media di 4.900 metri) sia «terzo Polo» (tra ghiaccio, neve e laghi rappresenta il più grande deposito di acqua dolce dopo Artide e Antartide).
Non è nozionismo ma dettagli fondamentali, quando hai un vicino come la Cina. Grazie alle sue vette, il Tibet è sempre stata una barriera insuperabile contro eventuali invasori, e le sue ricchezze naturali (il sottosuolo è ricco di minerali come rame, ferro, potassio e piombo) sono necessarie a chi come Pechino promette benessere a un miliardo e 400 milioni di cittadini.
Il Dragone rivendica diritti su quel territorio perché l’ha controllato per sei secoli e due dinastie, finché l’Impero cinese è crollato nel 1911 permettendogli di avere la sua indipendenza. Questo fino a quando Mao Tse-tung non ha proclamato la nascita della Repubblica popolare cinese decidendo in breve di invadere il Paese himalayano. Era il 1950. Il Dalai Lama – giovanissima guida spirituale e politica – venne forzato a riconoscere la sovranità di Pechino, ma durò poco. Nel 1959 una rivolta popolare fu soffocata nel sangue: 65.000 vittime, 70.000 deportati. Con l’aiuto dei servizi segreti americani il 24enne Tenzin Gyatso fuggì in India, dove ottenne asilo politico. Ed è ancora lì, nella città di Dharamsala, che oggi ha sede il Central Tibet administration, governo in esilio considerato illegittimo da quasi tutti gli Stati del mondo, pena l’immediata rappresaglia del Dragone.
Il Dalai Lama era e rimane una figura ingombrante per la Cina, che da anni pianifica il controllo sulla sua successione. Nel 1995 ha sequestrato e fatto sparire un bambino di sei anni, Gedhun Choekyi Nyima, che era stato identificato come Panchen Lama, ovvero la seconda autorità spirituale del Tibet, dirimente nella scelta del prossimo Dalai Lama. Al suo posto ha selezionato un altro bambino, Gyaltsen Norbu, e l’ha insediato come Panchen Lama «fantoccio» con il nome di Qoigyijabu. Per il governo cinese dovrà essere lui a indicare il nuovo Dalai Lama, imponendo di fatto in Tibet un nuovo leader politico e spirituale totalmente filocinese. E poco importa se dopo tanti anni ancora si manifesta nel mondo per la liberazione del piccolo scomparso (le ultime proteste a Parigi pochi giorni fa).
In questo percorso di dominio su una terra tanto importante, nel 2007 Pechino è arrivata a emanare una legge sulla «gestione delle reincarnazioni dei Buddha viventi», sostenendo che «non deve essere soggetta a interferenze o imposizioni da parte di nessuna organizzazione o individuo esterni al paese» (dunque esclude il governo in esilio) e che «il riconoscimento del Buddha vivente dovrà essere approvato dal Consiglio di stato cinese». La lama dello Stato è arrivata a incidere sulla gestione burocratica del processo, imponendo che tutti i candidati a Buddha reincarnato devono fare regolare richiesta riempiendo appositi moduli. E funzionari di partito sono stati incaricati di stazionare nei monasteri per supervisionare l’apparizione di eventuali pretendenti. Una volta individuato il giusto Dalai Lama, gli sarà insegnato poi a diventare leader sulla base di dogmi e principi tesi alla sottomissione all’autorità cinese. Nelle loro parole, a «garantire l’armonia ideologica». E siccome questa religione non è confinata al Tibet, l’ambizione è che finisca per influenzare i credenti in Asia e nel mondo. Il buddismo tibetano da usare come strumento di soft power.
Le contromisure di Tenzin Gyatso sono arrivate nel 2011. Prima, ha «abdicato» al suo potere politico trasferendolo nelle mani di un presidente (in modo che un eventuale Dalai Lama di nomina cinese non possa un giorno accettare la completa annessione del Tibet), successivamente ha stabilito che solo lui può riconoscere un successore prima della propria morte: un bambino, un adulto, anche una donna a cui fare un «trasferimento spirituale». Addirittura che potrebbe non esserci più un Dalai Lama, essendo una tradizione di epoca arcaica. «Deciderò quando avrò circa 90 anni». Mentre dal suo staff hanno fatto sapere che se il Tibet rimane occupato «Sua Santità il Dalai Lama ha detto che si reincarnerà fuori di lì, magari in India». La risposta di Pechino è stata paradossale (per uno stato ateo): le tradizioni religiose vanno rispettate e ogni altra forma di nomina è illegittima.
È nel quadro di questo contrasto che si muovono gli avvenimenti degli ultimi mesi. Prima di lasciare la Casa Bianca, il presidente Donald Trump ha fatto approvare il «Tibet Policy and Support Act of 2020», una legge per salvaguardare il diritto dei tibetani di scegliere il prossimo Dalai Lama senza le interferenze della Repubblica popolare cinese. «Le volontà dell’attuale Dalai Lama, incluse le sue eventuali indicazioni scritte, dovranno avere un peso determinante nella selezione, educazione e venerazione del futuro Dalai Lama». E ancora: «L’interferenza del governo cinese nel riconoscere il successore o la reincarnazione del quattordicesimo Dalai Lama rappresenterà una chiara violazione delle fondamentali libertà religiose dei buddhisti tibetani e del popolo tibetano».
E la nuova amministrazione Biden ha rincarato la dose: «Riteniamo che il governo cinese non debba avere alcun ruolo nel processo di successione del Dalai Lama» ha detto il portavoce del dipartimento di Stato in marzo. L’azione americana di contrasto alla Cina in Asia è così vasta da cercare di «colpirla» non soltanto rafforzando alleanze regionali, mettendola alla berlina per le violazioni contro i diritti umani e rafforzando la sua voce in difesa dei territori reclamati, Taiwan in testa. Mettono tutto il loro peso a sostegno di un Tibet che decida da solo il suo leader, ancorché spirituale, piuttosto che far piantare definitivamente le bandiere rosse sulla regione grazie al sotterfugio di una «miracolosa» reincarnazione filocinese.
Per quanto riguarda l’India, sempre più alleata degli Stati Uniti in funzione anticinese, le sue manovre per la nomina di un Dalai Lama indipendente sono serrate. Da gennaio a marzo, sempre secondo Bloomberg, lungo il confine himalayano con la Cina ha organizzato cinque diversi incontri di anziani monaci di varie sette e scuole. Assemblee utili a dare legittimità internazionale al successore del Dalai Lama, ma anche per riempire un vuoto di potere nel momento in cui non se ne individuasse uno per molto tempo. L’India non è mai stata così hinduista come con l’arrivo del governo ultranazionalista Modi, ma rimane il luogo di nascita del buddhismo di cui, a quanto pare, intende affermare un ruolo di protettore. Al punto che lo scorso settembre, in seguito ai sanguinosi scontri che li hanno contrapposti alle truppe di Pechino lungo il confine himalayano, si è rivelata l’esistenza di un’unità militare composta di soli militari tibetani in esilio.