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Etiopia: la diga della discordia

Etiopia: la diga della discordia

L’Etiopia sta costruendo un gigantesco sbarramento sul Nilo azzurro per sconfiggere la siccità e produrre elettricità. Ma per Egitto e Sudan è una minaccia alla propria sicurezza nazionale. Uno scontro dalle conseguenze imprevedibili.


Di tanti conflitti ignorati, questo non passerebbe inosservato. È tensione sempre più alta tra Etiopia, Egitto e Sudan, tre giganti dell’Africa orientale, e la causa è la risorsa delle risorse: l’acqua. L’immensa diga che il governo di Addis Abeba ha quasi completato sul Nilo azzurro, riduce la portata del fiume e potenzialmente gliene consente la futura gestione. Per i Paesi più a valle, una minaccia alla loro stessa esistenza. Molti i tentativi di accordo cercati negli anni, utili solo a esacerbare gli animi. Nei prossimi giorni è previsto un ennesimo summit tra primi ministri. Ma se qualcuno spera, per altri ci si è spinti troppo oltre.

Per inquadrare il problema partiamo da lei, la Grande diga del rinascimento etiope, o Gerd. Si trova nell’Etiopia del nord, dove il Nilo azzurro nasce per poi scorrere verso nord in Sudan ed Egitto dopo essersi congiunto al Nilo bianco. Quando sarà completata e operativa, forse entro il 2023, la struttura da più di 4,8 miliardi di dollari e prevalentemente di costruzione italiana (grazie a Webuild, ex Salini Impregilo) rappresenterà la più grande centrale idroelettrica in Africa: 170 metri di altezza e 1.800 di lunghezza, 6,45 gigawatt sviluppati da 16 turbine, un bacino artificiale dalla capienza di 74 miliardi di metri cubi. Per il suo riempimento saranno necessari dai quattro ai sette anni, anche perché la «finestra» per l’afflusso d’acqua è molto piccola: luglio, mese delle piogge. Si è cominciato l’estate scorsa e tra poco si riparte con l’aggiunta di 13,5 milioni di metri cubi, una misura decisamente indesiderata da chi se li vedrà sottratti.

Egitto e Sudan dipendono dal Nilo per il 97% del fabbisogno idrico e una diga di tali dimensioni è vista come una minaccia alla loro stessa esistenza. Ma anche l’Etiopia considera fondamentale per il suo sviluppo una diga che potrebbe alleviare la piaga della siccità e far progredire il Paese, visto che solo il 35% della popolazione ha accesso all’elettricità. In futuro la Gerd, che è stata finanziata dall’intera popolazione etiope (112 milioni di persone) in un immane sforzo collettivo, potrebbe non solo vitalizzare le aree rurali, ma anche portare la luce in scuole, botteghe e ospedali, refrigerare il cibo e consentire lo sviluppo industriale. Inoltre, Addis Abeba diventerebbe potenza energetica esportatrice, aumentando il suo peso nel continente.

«I tre Paesi sono legati da un punta vista fisico dal fiume e la soluzione tecnica sarebbe a portata di mano, ma non si trova perché il vero problema è politico» commenta un profondo conoscitore dell’Etiopia e del Nilo, Emanuele Fantini, ricercatore e professore di Water politics and communication all’olandese Unesco-IHE Delft Institute for Water education, la più importante organizzazione internazionale quando si parla di acqua. «In ballo ci sono progetti politici e visioni delle rispettive identità e interessi nazionali, su cui è ben più difficile arrivare a un compromesso. L’esempio più eclatante è l’Etiopia, profondamente instabile e divisa da scontri etnici, religiosi, guerre. Questa diga è l’unico tema su cui tutta la popolazione concorda e ritrova uno spirito unitario».

E la macchina del consenso del governo spinge forte su orgoglio nazionalista e retorica del nemico esterno. «I media descrivono la diga come nuovo elemento fondante dell’identità nazionale, addirittura come “nuova Adua”, la battaglia in cui l’esercito di Menelik sconfisse gli invasori italiani nel 1896. Dunque tornare indietro, scendere a patti per la sua gestione lasciando intromettere altre potenze sarà molto difficile. Il governo etiope oggi è vittima della sua stessa propaganda».

Non che per gli altri Paesi sia diverso. Si cerca consenso più che soluzioni, anche esternamente. «Basta vedere cosa sta accadendo con la “diplomazia dei webinar”, un fenomeno mai visto e dovuto alla pandemia» prosegue Fantini. «Le ambasciate di Etiopia ed Egitto nel mondo organizzano incontri digitali per convincere gli interlocutori sul tema Gerd. Ma più che cercare soluzioni, vogliono affermare la posizione di parte. Mentre la tecnologia non aiuta: esalta le contrapposizioni». A oggi il governo di Addis Abeba va dritto per la sua strada e non vuole interferenze da parte di entità che non siano africane. È per questo che è fallito il vertice che si è tenuto a Kinshasa al 4 al 6 aprile: la mediazione di Nazioni Unite, Stati Uniti, Unione africana e Unione europea è stata rispedita al mittente.

Il ministro degli Esteri etiope ha commentato: «Non possiamo entrare in un accordo che minacci i nostri diritti sull’utilizzo del Nilo», dando l’impressione di perseguire una strategia di «fatto compiuto»: con la diga praticamente in opera si può attendere che l’acqua la riempia senza prendere decisioni. Il ministro dell’irrigazione sudanese ha ribattuto: «Trattenere 13,5 milioni di metri cubi d’acqua è una minaccia reale che non può essere accettata». Aggiungendo che il Sudan non esclude nessuna opzione per proteggere «la sicurezza nazionale e i suoi cittadini» e che «ci saranno ripercussioni regionali».

Da parte egiziana il ministro degli esteri Sameh Shoukry ha messo in chiaro che «al momento giusto prenderemo le misure necessarie per proteggere il nostro interesse nazionale» e che «per l’Egitto il riempimento unilaterale della diga lascia presagire pericolosi sviluppi che metteranno a repentaglio la regione e la pace e sicurezza internazionale». Mentre il presidente Abdel Fattah al-Sisi prima ha tuonato «nessuno sottrarrà all’Egitto una goccia dell’acqua che gli spetta».

Già, perché alla base della faccenda c’è un accordo di stampo coloniale risalente al 1959, che garantiva 55,5 miliardi di metri cubi di acqua al Cairo e 18,5 miliardi al Sudan, trascurando l’Etiopia. Addis Abeba non lo riconosce e oggi che ha in mano il rubinetto del Nilo è in condizione di ribaltare lo status quo. L’interrogativo che preoccupa è: come si deciderà su immissioni e rilasci di acqua negli anni a venire? E che cosa accadrà in caso di siccità prolungata? Chi è più vicino all’origine dell’acqua ha anche il potere di decidere sulla vita dei Paesi che ne dipendono. Per questo l’obiettivo dei due Paesi più a valle è di ottenere quante più regole scritte sulle operazioni della Gerd e su come affrontare eventuali controversie: Egitto e Sudan vogliono un accordo legalmente vincolante, l’Etiopia insiste sul tracciare vaghe linee guida.

Gli analisti ritengono che una opzione militare sarebbe difficile ma non impossibile, dato che per Sudan ed Egitto si parla di sopravvivenza nazionale. Non è un caso se a inizio aprile i due Paesi hanno organizzato un’esercitazione militare congiunta dei loro «commando» e forze aeree denominata Nile Eagles – 2, per addestrare contro non specificate minacce alla loro sicurezza nazionale. Ma se la tensione dovesse toccare il livello di minaccia armata, non è chiaro come si comporterebbe chi in Etiopia ha molti interessi da difendere. In particolare Pechino, molto vicina al governo di Addis Abeba (che cionondimeno è alleata degli Stati Uniti) fin da quando ha inondato di denaro il Paese che considera la sua testa di ponte verso l’Africa.

Negli anni il Dragone ha elargito 52 prestiti per un ammontare di 13,7 miliardi di dollari, secondo i dati del China Africa research initiative (Cari) della Johns Hopkins University. E i progetti che la riguardano sono innumerevoli. Il più noto è la ferrovia Addis Abeba-Gibuti, completamente finanziata e costruita dalla Cina, che consente allo Stato etiope di accedere al mare e ai collegamenti marittimi del Golfo di Aden (più del 95% del commercio dell’Etiopia transita da Gibuti, dove Pechino ha una grande base militare). E la grande diga della discordia non sfugge a questa ingombrante presenza: Pechino non l’ha finanziata direttamente, ma ha concesso 1,2 miliardi di dollari per creare le linee di trasmissione dell’elettricità.

Non sorprende dunque che a inizio marzo il governo etiope, nella veste del commissario generale alle forze di polizia Demelash Gebremichael, abbia firmato un «memorandum of understanding» con l’ambasciatore cinese ad Addis Abeba, Zhao Ziyuan, volto a stabilire un «meccanismo di protezione» per la sicurezza dei progetti inclusi nella Nuova Via della seta in Etiopia. Dove questo porterà, è tutto da vedere.

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